La bellezza, la grande assente dei Vangeli
Articolo di Giorgio Montefoschi pubblicato sul Corriere della Sera del 26 agosto 2015
Alla metà degli anni Sessanta — raccontavano gli amici che frequentavano la facoltà di Architettura a Roma — Paolo Portoghesi, allora giovanissimo, faceva splendide lezioni di Letteratura italiana, sì: Letteratura italiana, che consistevano in una lettura di testi e in un suo commento.
Nel corso dei lunghi anni successivi — anni durante i quali, oltre a insegnare, Portoghesi progettava edifici e scriveva libri fondamentali — altri fortunati hanno avuto occasione di ascoltare, nel suo giardino di Calcata, o in una chiesa romana, queste straordinarie letture organizzate secondo un percorso, timbrate dalla sua voce. Presso la Libreria Editrice Vaticana, Portoghesi ha pubblicato un libro illustrato da fotografie fatte da lui stesso, intitolato “Il sorriso di tenerezza. Letture sulla custodia del creato” (pp. 320, e 26), nel quale sono raccolti, insieme alle sue riflessioni, testi di ispirazione cristiana che vanno dalla Bibbia ai giorni nostri e riguardano il rispetto e la custodia del creato: leggendolo, sembra di ascoltarlo. Il titolo viene da Simone Weil: «La bellezza del creato è il sorriso di tenerezza che Cristo rivolge a noi tramite la materia. Egli è realmente presente nella bellezza dell’universo».
Quello di Portoghesi è un libro bello; e gonfio di pensiero. L’uomo al quale Dio affida, nella Genesi, la sua creazione — la terra, l’acqua, l’aria, gli animali, le piante — deve ritenersi «padrone», e dunque sfruttatore fino alla sua distruzione, della natura, o invece suo «curatore» e suo servo? Le catastrofi che nelle loro visioni hanno immaginato Geremia e Ildegarda di Bingen, e continuano a far piangere la creazione, dobbiamo interpretarle quali una clamorosa smentita dell’armonia e della bellezza? O, seguendo Portoghesi, dobbiamo pensare che «la gioia che si prova ammirando la bellezza del creato non avrebbe il senso profondo che ha, se non si leggesse in essa, insieme alla fragilità e alla grazia, l’imminenza del dolore, nell’appassire dei fiori, nell’addensarsi delle nuvole, nella deformazione dei tronchi dell’olivo, nella fragilità degli esseri viventi»? E perché nei Vangeli la bellezza non esiste? Centrale nelle narrazioni del salmista; nelle domande che Dio pone a Giobbe; in Sant’Agostino e nei Padri della Chiesa; in Hölderlin e Luzi, nei Vangeli la bellezza non appare. Gesù va lungo il mare di Galilea, nei campi biondi di grano, sale sulla montagna, si ritira sospinto dallo Spirito nel deserto — e noi sappiamo qual è lo splendore di quei campi e di quel mare, la meravigliosa, imponente, solitudine di quel deserto. Perché non dice mai: quanto è bello! Due volte ci raccomanda di osservare gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, ma, come scrive Gianfranco Ravasi, «non si ferma davanti ai voli degli uccelli o alla fragranza delicata e sontuosa dei gigli del campo per comporre una lirica, bensì per condurre chi la sta contemplando verso altre mete». Anche Simone Weil si pone il problema dei pochi riferimenti evangelici alla bellezza del creato: «Evidentemente i discepoli hanno ritenuto inutile includere in un testo così breve, che, come dice San Giovanni, è ben lontano dal contenere tutti gli insegnamenti di Cristo, quanto concerne un sentimento così diffuso».
Si aggiunge, a questa strepitosa risposta sulla bellezza come la concepiamo e come l’hanno celebrata duemila anni di cristianesimo — lo «spazio» concesso agli evangelisti — il tema ineliminabile dell’incarnazione. Dio è sceso nel mondo. Si è incarnato nel Figlio. Si è fatto uomo. Il Figlio parla all’uomo, guarda soltanto l’uomo — come se non avesse tempo e spazio per altro. E l’uomo è fragile, cieco, storpio, posseduto, sanguinante. L’uomo suda sangue, muore, manda cattivo odore. Quale bellezza può esistere nell’uomo se non nella condivisione del dolore? Vale a dire, nell’amore per il prossimo che imita l’amore divino?