La doppia arma del giudizio: quando chi è stato vittima diventa carnefice
Riflessioni tratte dal sito di Kairos, gruppo di cristiani LGBT+ e i loro genitori di Firenze
Ricordo una volta, durante un incontro di genitori di persone LGBT+, una madre che ha iniziato a parlare del suo travagliato percorso di accettazione dell’omosessualità del figlio. Era evidente quanto, nonostante tutto lo amasse, ma le sue parole si sono fermate quando ha visto entrare una donna transgender, visibilmente fiera del suo essere.
Con un sussurro appena percettibile, la madre ha detto a un’altra persona vicina a lei: “Capisco i gay, ma così è troppo. Non si può essere così esagerati”.
Quelle parole mi hanno ferito più di quanto avrei immaginato. Non perché fossero nuove, ma perché venivano da qualcuno che, come noi, aveva vissuto il dolore del pregiudizio e dell’esclusione. Una madre che aveva probabilmente affrontato notti insonni chiedendosi se suo figlio gay sarebbe stato accettato, che aveva sperimentato sulla propria pelle il giudizio degli altri, eppure, in quel momento, si era fatta giudice.
Non è un caso isolato. Anche noi, come persone LGBT+ con i nostri familiari, spesso ci troviamo a volte a giudicare gli altri perché sono: poco cristiani e troppo queer (o il contrario), troppo effeminati, troppo visibili, troppo “diversi”.
È un paradosso doloroso, perché conosciamo bene il peso del giudizio. Eppure, forse, giudichiamo perché il farlo ci dà una fugace sensazione di controllo, come se, separandoci da ciò che consideriamo “troppo”, ci sentissimo più al sicuro, più accettabili agli occhi del mondo.
Ricordo un mio amico, visibilmente effeminato, che una volta mi disse con amarezza: “Non basta essere gay per sentirsi accettati, neanche dalla tua stessa famiglia. Devi essere il tipo giusto di gay, quello che non dà troppo nell’occhio”. Quelle parole mi hanno colpito profondamente, perché riflettevano una realtà che ho visto troppe volte: una richiesta implicita di “adeguarsi” a uno schema, anche da parte di chi dovrebbe amarti incondizionatamente.
Mi tornano in mente le parole di Gesù: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo?” (Matteo 7,3). Non è forse quello che facciamo? Invece di unire le forze contro l’intolleranza, costruiamo muri anche fra di noi, spesso proprio tra le mura di casa. Invece di accogliere, escludiamo.
La verità è che il mondo ha bisogno di tutte le nostre sfumature: il cattolico che lotta per conciliare la sua fede con l’essere una persona LGBT+, il ragazzo effeminato che sfida gli stereotipi, la persona transgender che non si nasconde. Siamo tutti parte di una storia più grande, e ogni storia è necessaria per raccontare la bellezza e la complessità della vita.
Ed è proprio lì che si trova la nostra lezione più grande: ama loro per imparare ad amare, e a perdonare, tutte le nostre mancanze.