La fuga in seminario. Il celibato per un gay cattolico non è l’unica opzione
Testimonianza di Patrick Gothman* pubblicata sul sito “Reaching Out – storie di fede LGBTQ persa e trovata” il 22 novembre 2017, libera traduzione di Innocenzo
Non sapevo davvero cosa pensare del fatto che ero parte di una Chiesa che pensava di non fossi capace di amare e che fossi intrinsecamente disordinato . Ma avevo diciassette anni. Sapevo che non dovevo per forza capire tutto subito. Nessuno in parrocchia aveva bisogno di sapere che ero gay. Semplicemente tenni nascosta quella parte di me, per vedere dove sarei arrivato.
Così ho iniziato a pregare regolarmente. Ho provato la terapia, non quella di conversione, ma una donna mi aveva detto che sarei stato sempre felice nella vita se fossi stato celibe. Sono stato coinvolto come responsabile nella vita parrocchiale ed ho fatto il possibile per allineare la mia vita a quello che la Chiesa mi chiedeva di fare.
Ma quando arrivò il mio primo anno di college, iniziai a sentire un fastidio in me, come un prurito appena fuori della mia portata, ogni volta che ero solo iniziai a parlare con Dio. Avevo conosciuto molti sacerdoti ed ho visto l’impatto positivo che stavano avendo sulla vita delle persone. Col tempo ho iniziato a sentire che Dio mi stava chiedendo di fare un tentativo.
Vorrei poter dire esattamente da dove venisse. Forse è solo che molti dei sacerdoti che conoscevo erano uomini sinceramente buoni che avevano uno scopo preciso nelle loro vite. Così mi sono precipitato dentro a questa strada. Così a diciannove anni sono entrato in seminario in Minnesota, per iniziare il cammino per diventare prete.
C’erano più di cento persone. Uomini che venivano da tutto il Midwest e il Sud degli Stati Uniti. Il mio compagno di stanza era un confratello dell’Oklahoma, contagiosamente carismatico, che suonava il banjo.
Ufficialmente, tutti noi eravamo lì per conseguire un diploma di laurea in filosofia, anche se il programma giornaliero rivelava un piano più grande. C’era da fare molto di più per diventare un prete, non solo studiare in classe. Le preghiere iniziavano alle sei del mattino. C’erano tempi di “formazione” e tempi di condivisione. Il rettore responsabile del seminario credeva che la Chiesa cattolica americana avesse subito una crisi di leadership. La sua cura era che serviva una nuova generazione di sacerdoti che sapessero cosa significasse essere dei veri padri per il loro gregge. Non ci doveva essere più teologia “liberale”. Non ci dovevano essere più vite confortevoli ed isolate. “Sii un uomo” e dai la vita alle vite dei tuoi parrocchiani.
Quando sono arrivato, nel mio primo fine settimana, il rettore ha tenuto una conferenza a tutti i nuovi seminaristi. Riguardava le basi della sua visione, cosa dovevamo aspettarci, quali potenziali insidie la vita da seminarista avrebbe potuto avere su un diciannovenne, impreparato a essere un pastore di un gregge, mentre studiava filosofia. Passavo il tempo in preghiera, mentre le ex fidanzate scrivevano disperatamente da casa, tra nuovi orari e professori famosi. Ci hanno trattato come i futuri soldati da mandare al fronte, in una battaglia per il cuore stesso della cultura che cercavamo di servire, e lo abbiamo amato quel tempo per questo.
Nel secondo giorno dei colloqui il rettore ha detto che, statisticamente parlando, una piccola parte di noi era probabilmente gay. Ovviamente non ha usato la parola “gay”. Ufficialmente parlando, la Chiesa cattolica usa il termine, assai arido, di “persone attratte dallo stesso sesso”. Perciò ci ha detto che “alcuni di voi probabilmente combattono con l’attrazione verso lo stesso sesso”. Identificando come gay tutti i comportamenti che la Chiesa disapprova. Ma essere attratti dallo stesso sesso, diceva il nostro rettore, può essere una qualità “intrinsecamente isolante”, perciò ad un certo punto ci raccomandò di parlarne con uno dei sacerdoti del seminario.
Quindi, la prima volta che ho avuto un incontro con lui nel suo ufficio, gli ho detto che stavo davvero lottando contro un’attrazione per lo stesso sesso. Il mio cuore stava battendo forte. Erano passati più di due anni da quando avevo menzionato la mia sessualità a qualcuno. La sua risposta fu di genuina compassione. Mi guardò negli occhi e mi disse che doveva essere duro e non era una cosa che avevo scelto. Preoccupato per il mio benessere andando avanti, mi suggerì di sviluppare una sorta di codice. Se mai avessi sentito che la mia vita stava diventando più complicata di quanto potessi gestire, avrei dovuto semplicemente dirgli: “Padre, sono a Defcon 4” o tre. Qualunque fosse lo stato di allerta.
La sua preoccupazione per me era reale, anche se raramente sentivo che poteva essere qualcuno a cui potevo – o dovevo – confidare qualcosa della mia sessualità. Era un buon prete che si prendeva cura di me profondamente, ma sapevo che tipo di uomo voleva che fossero i suoi seminaristi. Non lo sapevo, ma ho fatto del mio meglio per impressionarlo e per reprimere le parti di me che sapevo lo avrebbero deluso.
Vagando nel campus da solo, a tarda notte, a volte pregavo, piangevo e fumavo una manciata di sigarette sotto una massiccia statua mariana, dietro la cappella della scuola. Odiavo questa vita abitudinaria, ma mi sentivo finalmente bene nell’avere una sorta di manifestazione della bruttezza che sentivo dentro. Ho pregato per un cambiamento, per la mia guarigione. E quando il sole sorgeva, lasciavo una pila di cenere di tabacco ai piedi della statua, era una specie di offerta “intrinsecamente disordinata” d’incenso bruciato.
Alla fine è arrivato il momento di decidere se continuare i successivi quattro anni di seminario, prima di diventare sacerdote. Nonostante il mio tumulto interiore, avevo raggiunto un certo tipo di stima in seminario. Appoggiandomi al mio stato, in quegli anni è stato sorprendentemente facile trascurare il punto in cui il mio cammino in seminario mi stava conducendo.
Alla fine ho dovuto chiedermi se volevo davvero passare la mia vita nei compiti quotidiani di un prete: volevo davvero ascoltare le confessioni, celebrare la Messa, visitare gli ammalati e battezzare i bambini? Quando finalmente mi sono seduto e ho riflettuto onestamente, dopo quasi quattro anni di preparazione, ho dovuto riconoscere che mi piaceva essere un seminarista, più di diventare prete. Mi è piaciuta la comunità, lo studio, il senso dello scopo della Hoorah . Se fosse stato Dio a dare un senso alla mia vita, sapevo che non c’erano segnali che avrei dovuto finire per consacrarmi come prete.
Dopo la laurea ho ottenuto un lavoro a Dallas, insegnando in una scuola cattolica locale. Sono stato assunto per insegnare la morale e la giustizia sociale, allenando la squadra di baseball dopo le mie ore. A quel tempo, la morale era un corso di livello junior a scuola, così ho iniziato ad affrontare i principi del comportamento con adolescenti che avevano la mia stessa età, quando avevo iniziato a esplorare la mia sessualità. Non è stato tempo perso su di me.
Questa volta ero coinvolto nella morale cattolica, ma ho deciso di creare una classe in cui i miei studenti fossero sfidati a sviluppare la propria coscienza, anche quando ho affrontato l’insegnamento ufficiale della Chiesa. Come ogni insegnante ti dirà, è stato un lavoro estenuante. Sono rimasto sveglio fino a tarda notte a pianificare una lezione sull’immigrazione, solo per trovarmi poi inevitabilmente seduto su una scrivania vuota, con le maniche rimboccate, a guidare una vigorosa discussione sull’idea che gli extraterrestri potessero avere un anima.
Il mio problema più grande era la vita al di fuori della mia classe. In seminario avevo una copertura integrata. Quando ti stai allenando per diventare un prete, la tua sessualità è fuori doscussione. Soprannomi come Padre What-A-Waste (che spreco) erano abbastanza usati per scherzo, ma la gente rispettava l’idea che tu io fossi off-limits. E ora?
* Patrick Gothman vive negli Stati Uniti, dove si occupa di giustizia sociale. E’ uno scrittore abbastanza gay ed è editor del sito Reaching Out.
Testo originale: I Thought Gay Celibacy Was My Only Option — I Was Wrong