La lotta per i diritti delle persone LGBT della rabbina Sharon Kleinbaum
Intervista di Rebecca Steinitz* alla rabbina Sharon Kleinbaum pubblicata sul sito dell’associazione LGBT Arcus Foundation (Stati Uniti) il 15 ottobre 2010, liberamente tradotta da Silvia Lanzi
La vita della rabbina Sharon Kleinbaum è la storia di più di 40 anni del movimento per i diritti delle persone LGBT. Alla fine degli anni ’70, quando iniziò il college, credeva di essere l’unica donna sulla Terra che fosse interessata romanticamente ad altre donne. Oggi, come rabbina della congregazione Beth Simchat Torah di New York – la più grande sinagoga LGBT del mondo –, è una delle più importanti portavoce degli ebrei LGBT e una stimata sostenitrice religiosa dei valori progressisti. Sharon Kleinbaum si è diplomata al Barnard College, dove era un’attivista, ed è stata ordinata dal Collegio Rabbinico Ricostruzionista. Prima di diventare la prima rabbina del Beth Simchat Torah nel 1992 è stata assistente direttiva al Centro Nazionale del Libro Yiddish ad Amherst nel Massachussetts e direttrice delle relazioni tra congregazioni al Centro di Azione religiosa del Giudaismo riformato di Washington.
Nel 2009 il programma Religioni e Valori della Arcus Foundation ha dato alla congregazione Beth Simchat Torah un contributo di 350.000 dollari “per aver assunto il ruolo di difesa nazionale dei diritti delle persone LGBT nelle varie correnti dell’ebraismo e, in generale, nel più vasto quadro del movimento LGBT”. Per la rabbina Kleinbaum questo è una naturale estensione delle sue convinzioni e dei suoi valori più profondi.
Quali sono le origini del suo impegno nell’attivismo e nella giustizia sociale?
Vengo da una famiglia molto impegnata. Mio padre, durante la seconda guerra mondiale, era pacifista e obiettore di coscienza, cosa piuttosto insolita specialmente perché era figlio di immigrati ebrei. Ho imparato molto da lui sul prendere posizioni difficili a prescindere dalla loro popolarità. Sono la più giovane di quattro figli e mio fratello maggiore era molto impegnato nel movimento dei lavoratori agricoli di Cesar Chavez. Abbiamo passato molte domeniche facendo picchetti fuori dal supermercato locale. Ho fatto propaganda elettorale per Gene McCarthy durante la sua corsa alla Casa Bianca, nonostante vivessimo in una cittadina repubblicana.
Feci la mia prima azione degna di nota in quinta, quando io e due delle mie amiche più strette iniziammo una campagna per fare in modo che il sistema scolastico della nostra città permettesse alle ragazze di portare i pantaloni. Organizzammo l’intera scuola facendo in modo che bambini dell’asilo, che non potevano ancora scrivere i loro nomi, colorassero la petizione invece di firmarla. Il giornale locale scrisse un articolo, l’interesse aumentò e noi vincemmo. Questo fu il mio primo assaggio di una vittoria politica.
In che modo l’ebraismo ha fatto parte del suo sviluppo politico?
La mia famiglia non era particolarmente religiosa ma eravamo profondamente ebrei. Nei primi anni ’70 le scuole pubbliche della mia città stavano andando in rovina. Aveva appena aperto una scuola ebraica ortodossa, così ci andai e diventai ortodossa. Sono sempre stata interessata a porre le cosiddette domande di senso: perché siamo qui? Cosa rende la nostra vita degna di essere vissuta? L’ebraismo della mia infanzia era molto superficiale ma in questa scuola ne ho scoperto altri aspetti: il suo lato storico, basato sui testi, e quello intellettuale e spirituale. Dagli insegnamenti ortodossi ho imparato che l’ebraismo ha una grande profondità, che di fatto è più di una semplice tradizione culturale e che le sue tradizioni religiose e intellettuali hanno molto spessore.
Quando sono andata al college ho iniziato a notare che in tutta l’attività politica in cui ero coinvolta i non-ebrei dicevano che, per esempio, il loro cristianesimo o il loro cattolicesimo alimentavano le loro prese di posizione sulle armi nucleari o sui diritti degli affittuari, ma gli ebrei non dicevano che l’ebraismo alimentava il loro attivismo. Rimasi delusa perché sapevo che l’ebraismo aveva molto da dire, come qualsiasi altra religione, del resto. Non volevo più essere ortodossa ma volevo usare la mia conoscenza dei testi sacri per costruire una visione progressista dell’ebraismo che non fosse solo un ebraismo di lox e bagels [piatti tipici ebraici, n.d.t.] o di “Oy vey” [espressione di esasperazione, n.d.t.], ma fosse parte di un cambiamento del mondo, che sradicasse la violenza e creasse giustizia.
Cosa l’ha spinta ad essere ordinata come rabbino ricostruzionista?
Sono cresciuta in una sinagoga conservatrice e ho frequentato un liceo ortodosso, dove sono diventata molto ortodossa. Comunque, all’ultimo anno, mi sono sentita a disagio nei confronti della posizione delle donne, che diventa più chiara man mano che ci si addentra nei testi ebraici. Mi sono guardata attorno nel mondo ortodosso, chiedendomi dov’ero andata a finire, sapevo di non volermi sposare ma non potevo spiegare il perché. Guardando indietro, penso che parte della ragione fosse che stavo facendo coming out e non vedevo posto per me come lesbica nel mondo ebraico.
Al college iniziai ad interessarmi di “roba” ebraica non religiosa, come la storia e la cultura yiddish dell’Europa dell’est. Iniziai anche a entrare in contatto con la storia radicale dell’ebraismo. Dopo il college lavorai al Centro Nazionale del Libro Yiddish. Mentre ero lì, diventai la “rabbina” non ufficiale di una comunità di hippie ebrei che vivevano nelle colline lì vicino. Mi piaceva costruire ponti tra la storia della nostra tradizione e ciò che aveva da offrire e la gente che incontravo. Ero indispettita che non potessero avere accesso all’ebraismo, che sicuramente avrebbe arricchito il loro attivismo.
È stato allora che ho deciso di ritornare alla scuola rabbinica, perché volevo studiare l’ebraismo da adulta, lesbica e attivista. Volevo essere in grado di fare domande piene di senso da un luogo di integrità e vedere cosa la tradizione aveva da offrirmi. Il movimento conservatore non ordinava donne e quello riformato sottoponeva gli aspiranti ad un test psicologico per stabilire se erano omosessuali: se stabilivano che lo erano, non potevano diventare rabbini. Nel 1984 l’ebraismo ricostruzionista aveva adottato una politica di ammissione non discriminatoria perché vedevano l’omosessualità come una faccenda di diritti civili, sebbene non pensassero alle implicazioni culturali. Sono entrata al Collegio Rabbinico Ricostruzionista nel 1985 e ho dato vita al comitato What Now? (E ora?) per studiare tali implicazioni.
Nei quattro anni seguenti sono stata coinvolta nell’attivismo del mondo ebraico liberale, dal trasformare l’ebraismo alla semplice partecipazione di gay e lesbiche, al rimuovere il pregiudizio eterosessuale, il che implica il ripensare la famiglia ebraica, l’educazione famigliare, come sono organizzate e funzionano le sinagoghe e come parliamo di sesso e famiglia. Infine dobbiamo rivolgerci alla teologia, perché l’ebraismo è basato su una teologia eterosessuale nella quale Dio è maschio e dominante e Israele subordinato e femminile. Abbiamo trasformato la scuola e adesso abbiamo trasformato il movimento ricostruzionista.
Che ruolo può avere una sinagoga come il Beth Simchat Torah nel movimento per i diritti LGBT?
In tutto il mondo il maggior fattore di oppressione delle persone omosessuali è la religione. Vogliamo essere l’avanguardia di un movimento religioso che abbracci tutte le fedi, che rifiuti ogni fondamentalismo e partecipi al cambiamento di natura dello stesso discorso religioso. La sessualità è al centro di questo cambiamento perché è la cosa di cui le religioni hanno più paura. Le persone omosessuali sono state considerate malate, criminali o peccatrici. Negli Stati Uniti non sono più né malate né criminali, ma il peccato, in tutte le religioni, è ancora la categoria che opprime le persone omosessuali. In altre parti del mondo, invece, sono ancora considerate malate, criminali o peccatrici.
Non penso che possiamo semplicemente ignorare che è la religione la causa di tale oppressione. Dobbiamo renderla una fonte di liberazione. Unendoci a cristiani, musulmani, hindu (a seconda della nostra fede) possiamo essere la fonte di un movimento mondiale per la liberazione delle persone omosessuali. Vogliamo trasformare non solo l’ebraismo ma tutto il discorso religioso, sia in America che in tutto il mondo.
Perché l’Arcus Foundation ha premiato l’impegno sociale del Beth Simchat Torah?
Credo che riusciamo in quel che facciamo. Vogliamo che la nostra sinagoga sia un luogo di trasformazione personale, dove ognuno cambia in meglio e riceve energie per il suo lavoro nel mondo e come comunità lo stiamo proprio cambiando, il mondo. Voglio far parte di un mondo in divenire dove, fra trent’anni, la religione non sarà più uno strumento di oppressione delle persone omosessuali ed è ciò che sta facendo il Beth Simchat Torah. Mentre parliamo di diritti umani abbiamo lasciato che i leader religiosi fondamentalisti monopolizzassero la discussione sui nostri valori. Diritti e valori sono due cose diverse. Molte persone nel mondo hanno desiderio di senso e di uno scopo e vogliono vivere una vita che abbia valori e principii.
Non c’è alcun monopolio su valori e principii. Sono molto onorata che Arcus ci abbia premiato. I soldi ricevuti ci hanno aiutato a rendere ancora più efficiente e capillare il nostro lavoro. Con il denaro di Arcus stiamo insegnando ai futuri rabbini come lavorare con gli ebrei LGBT, stiamo dando strumenti ai rabbini perché possano prendersi cura dei membri LGBT delle loro comunità, stiamo trasformando i nostri leader laici in attivisti per la giustizia sociale e stiamo facendo un censimento sulle case di riposo per vedere come si prendono cura delle persone LGBT anziane. Ci teniamo a trasformare le varie confessioni e a far sentire la nostra voce.
Cosa la elettrizza di più in questo momento?
Sono parecchio eccitata dal cambiamento nel dibattito su religione e persone LGBT e dall’affermazione che la religione non è più anti-omosessuale. Sebbene alcune tradizioni e alcuni leader lo sono, molti non lo sono affatto. Il nostro compito è far sentire le loro voci perché la religione possa diventare, nel mondo, una voce di liberazione per le persone omosessuali.
Cosa la spaventa?
Nel mondo, il potere centralizzato della destra religiosa è una forza terrificante. Ma credo che la sconfiggeremo.
*Rebecca Steinitz è scrittrice, redattrice e consulente del no profit, vive a Arlington nel Massachusetts.
Testo originale: Liberation Through Religion: A Conversation with Rabbi Sharon Kleinbaum