La parabola del “fico sterile” nella mia vita di lesbica cristiana
Riflessioni bibliche inviateci da Silvia
Un mio amico, che purtroppo oggi non c’è più, ha dato un interpretazione di questa parabola (Luca 13, 6-9) che mi ha colpito profondamente. Prima che io ne parli più diffusamente dovrei fare un paio di premesse.
Anzitutto dire che, sia per formazione culturale che per scelta religiosa, ho una conoscenza se non onnicomprensiva, almeno abbastanza vasta delle Sacre Scritture – per lo meno del Nuovo Testamento: quel che mi ha colpito nella riflessione del mio amico è stata la sua capacità di lavorare e riflettere sulla parabola in modo assolutamente personale e da un’angolazione che io non avevo mai considerato.
E la cosa mi ha stupito molto: possibile che io, che pure mi ritengo una persona capace di guardare oltre – forse mi incenso un po’ troppo, ma lasciatemi questa piccola vanità – non ci fossi arrivata da sola? E’ stata una presa di coscienza fulminante e assolutamente repentina: quelle non erano le parole di una predica, come ne ho sentito tante, ma quelle di una persona che si mette in gioco senza paura.
La seconda precisazione che vorrei fare è che questa rilettura così personale e profonda della parabola del fico sterile è avvenuta in un contesto un po’ inconsueto: un incontro di gay, in una parrocchia milanese. Anche se il binomio omosessualità e fede sembra quanto meno stridente, esiste una realtà che coniuga questi due aspetti1: io, per mia fortuna, mi sono trovata a farne parte in un momento molto delicato della mia vita.
La rilettura di Giorgio, sottolineava tanto la pazienza del fattore e la sua intercessione per salvare il fico, ma poneva il suo accento su chi concretamente l’aveva zappato e concimato. E nella sua versione, lui era il fico ed erano parecchie le persone che, nonostante la sua sterilità, avevano creduto in lui e gli zappettavano intorno alle radici per fornire loro nutrimento: non ricordo se si espresse proprio con queste parole, ma il significato è questo.
Anch’io, per fortuna, ho trovato tante persone che, fuor di metafora, per nulla scoraggiate dalla mia apparente freddezza e incostanza, mi hanno aiutato a fiorire e, si spera, a portare frutto. Le prime sono state, e di questo non le ringrazierò mai abbastanza, i ragazzi e le ragazze del gruppo milanese “La fonte”. La mia frequentazione del gruppo è stata molto assidua per un paio d’anni, dopo di che le nostre strade si sono divise: per me era il momento di vivere altre esperienze, o forse avevo già succhiato – come un bimbo fa con il latte della mamma – tutto quello che potevano darmi.
Ma loro mi hanno anche svezzato, mi hanno aiutato ad avere più fiducia in me stessa: hanno zappato, ossigenato e concimato le mie radici piuttosto secche e contorte; mi hanno dato, insomma, il nutrimento di cui avevo bisogno. Mi hanno aiutato ripensare la fede, che io, razionalista fino al midollo, avevo messo da parte (e ogni volta che si affacciava, prepotente, l’idea di Dio, fastidiosa come un pungolo, io la scacciavo) e soprattutto, mi hanno aiutato a dare frutto, umanamente parlando.
Dopo parecchi anni di assenza, sono tornata tra loro per presentare il mio libro. E li ho ritrovati. Volti conosciuti, altri no. Ma comunque miei amici. Non lo dico così, tanto per dire ma semplicemente perché li considero davvero tali. E loro mi hanno accolto come una vecchia amica, e di questo sono felice perché, anche in questi anni di non-frequentazione li ho portati nel cuore, sentendoli molto vicini, pensando spesso a loro e altrettanto spesso ringraziandoli silenziosamente. Perché?
Prima di tutto perché loro ci sono stati in un momento particolarmente delicato della mia vita, in cui avevo bisogno di comprensione e condivisione.
Il conoscerli, le parole, le riflessioni che ci siamo scambiati nel corso dei vari incontri, sono stati per me preziose occasioni di meditazione e di crescita. Sono stati il mio ossigeno in un periodo il cui respirare mi riusciva piuttosto difficile; inoltre il gruppo è stato il luogo in cui ho maturato la consapevolezza che la propria omosessualità si può vivere in modo assolutamente tranquillo e sereno e che dirsi, raccontarsi, non significa necessariamente ostentazione ma è prima di tutto una necessità fondamentale: quella di mettersi in contatto profondo con l’altro, anche e soprattutto occasione di crescita.
Parlare di sé, se non è un parlarsi addosso, è il primo passo per conoscersi meglio, per mettersi davanti allo specchio e dirsi: “Io sono così, e non sono per niente male”; ascoltare poi, vuol dire fare posto all’altro – quell’altro che come Giorgio, può donarti una riflessione assolutamente inedita che ti apre una prospettiva mai neanche immaginata. Ricordo con affetto gli incontri mensili, che io aspettavo come una manna dal cielo (a quell’epoca, in effetti, consideravo il gruppo come l’unica realtà in cui potessi essere compiutamente me stessa) a volte teatro di scontri molto coloriti – com’è sempre quando si da voce a storie, esperienze e posizioni diverse – ma sempre rispettosi delle posizioni altrui.
Ed è bella questa diversità-nella-“diversità”, dove ognuno porta del suo e dove ci si confronta con serenità. Un’altra cosa che ho imparato è stata quella di non avere più paura del contatto fisico – una delle caratteristiche peculiari dell’affetto, e l’avete fatto con spontaneità, quella spontaneità che a poco a poco, e per fortuna, è riuscita a vincermi, ad abbattere un sacco di inutili barriere – quelle che mi ero costruita.
Qualcuno, proprio in quell’occasione, ha sottolineato quanto fossi cambiata rispetto ai primi tempi. Allora ero timida, paurosa, chiusa a riccio e sfuggente in maniera quasi anguillesca (concedetemi questo neologismo, che mi sembra molto appropriato).
Me lo ricordo ancora con una chiarezza incredibile: la ritrosia, la riluttanza con cui accettavo i loro saluti calorosi, i loro abbracci ed ogni segno fisico di affetto. Mi sono domandata spesso il motivo il perché di questa mia freddezza, quando, molto spesso desideravo in modo straziante che qualcuno mi dimostrasse che ero importante.
Forse era perché ero mostruosamente cerebrale, o perché avevo timore che un abbraccio, o perché avevo semplicemente paura di mostrarmi vulnerabile e per questo pensavo che anche semplice contatto con una persona limitasse il mio spazio vitale – ma poi ho scoperto, con gioia, che un abbraccio, un vero abbraccio, non solo non mi privava del mio spazio vitale, ma era come se l’altro, con il calore del suo affetto, volesse donarmi pure il suo.
Ecco. Gli amici della Fonte hanno fatto questo e anche di più, molto di più. Mi hanno aiutato a capire quanto io fossi “bella”, per il solo fatto di esserci, di essere me stessa, al di là di qualsiasi altra considerazione. È stato un percorso lungo, non sempre agevole, che mi ha portato lontano, ma devo riconoscere, e lo faccio con gioia, che è proprio grazie a loro che ho iniziato a muovere i miei primi passi in questa direzione.
Loro che mi hanno permesso di non essere più sterile e di portare frutto.