La sindrome del coming out. Il lungo viaggio per essere se stessi
Testo di Lori Heine, pubblicato su Whosoever (Stati Uniti) in data 1 marzo 2013. Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata.*
Come molti di noi sanno, fare coming out non è mai un singolo momento, ma un viaggio. A volte, un viaggio lungo e faticoso. Possiamo trovarci a rimandare, a tentennare, paralizzati dalla paura di quel passo cruciale, soprattutto con le persone che contano davvero per noi.
Quelle persone che, secondo le voci che abbiamo sentito, non ci avrebbero accettettato mai. Forse, senza sapere nulla di noi, in passato hanno detto parole dure, hanno fatto battute o preso posizioni che ci hanno ferito, e noi abbiamo dato per scontato che fosse impossibile fare cambiare loro idea. Ci convinciamo che lo stereotipo che abbiamo su di loro sia vero. Che non ci sarà mai spazio per noi nelle loro vite.
Ma non voglio dire che tutti reagiranno bene, né che non ci siano rischi nel rivelare chi siamo. Voglio solo ricordare quanto sia pericoloso lasciare che le esperienze negative altrui decidano il nostro destino.
Per anni possiamo vivere intrappolati in una doppia esistenza, trattenendo il respiro, tenendo le distanze dalle persone a cui vogliamo bene, semplicemente perché qualcuno ci ha detto che non ci accetteranno mai.
A volte, chi ci mette in guardia lo fa perché ci vuole proteggere. Ma non sempre è così. Ci sono tanti motivi per cui qualcuno potrebbe volerci spaventare. Alcuni hanno interessi politici o religiosi che si rafforzano alimentando la divisione tra le persone LGBTQ+ e le loro famiglie, i loro amici, i loro sostenitori.
E questi interessi esistono sia tra i conservatori che tra i progressisti, sia nelle istituzioni dello Stato che in quelle della Chiesa. Altri, invece, possono essere mossi da ragioni più personali. Forse pensano che, tenendoci lontani dai nostri genitori, alla fine saranno loro a ereditare ciò che ci spetterebbe. O forse temono il nostro talento, e lasciandoci chiusi nell’ombra sperano di impedirci di brillare.
Le persone, però, non sono così prevedibili come vogliono farci credere. Ho conosciuto conservatori che hanno reagito con straordinaria apertura e gentilezza al mio coming out, mentre progressisti che credevo amici hanno fatto battute crudeli e si sono allontanati da me.
Ho visto cristiani evangelici accogliermi con le braccia aperte, e atei razionali storcere il naso con disgusto, dicendomi che, in un mondo perfetto, persone come me non dovrebbero esistere.
Ho vissuto tutte queste esperienze sulla mia pelle.
Sì, esistono ancora persone che non ci accettano, che ripetono senza pensare che non si può essere cristiani ed essere LGBTQ+. Ma cosa possiamo fare? A volte, purtroppo, niente. Ma indipendentemente da come reagiranno gli altri, possiamo scegliere di essere noi stessi. Possiamo vivere apertamente, con onestà e dignità.
Possiamo continuare a credere, a camminare a testa alta, a essere le migliori persone LGBTQ+ cristiane che possiamo essere. E, col tempo, potremmo scoprire che molte di quelle persone finiscono per ricredersi, forse prima di quanto immaginiamo. Quanto agli altri, dovranno rispondere della durezza del loro cuore non a noi, ma a Dio.
Quando ero all’università, dopo aver trascorso i primi anni in un’enorme e dispersiva Arizona State University, decisi di trasferirmi in un ambiente più piccolo e accogliente: il Grand Canyon College, che stava per ottenere lo status di università. E lì trovai esattamente quello che speravo.
Tra le prime persone che conobbi c’era Shawnee, una mia coetanea, anche lei studentessa di inglese. Dopo la laurea, nonostante le nostre vite prendessero direzioni diverse, la nostra amicizia continuò.
Shawnee era cresciuta in una famiglia battista molto conservatrice. I suoi genitori l’avevano educata in casa, prima che diventasse una moda nazionale. Era conservatrice convinta, eterosessuale e, col tempo, sposò un pastore con cui era felicissima. Lui era l’amore della sua vita.
L’estate dopo la nostra laurea andammo insieme a San Diego per vedere in tour i pattinatori olimpici. Lei aveva una cotta per Brian Boitano e lo dichiarava apertamente, sospirando ogni volta che lo vedeva. Io, invece, avevo una cotta per Katarina Witt. Ma ai tempi, quando ero ancora ventenne, non avrei mai avuto il coraggio di ammetterlo con nessuno.
Quando, poco prima dei miei trentacinque anni, decisi di fare coming out, Shawnee era la persona che temevo di più. Come avrebbe reagito? Me la immaginavo sgranare gli occhi e urlare: “Che schifo! E pensare che abbiamo vissuto insieme per un anno!” Immaginavo che mi voltasse le spalle per sempre. Nella mia mente, ogni possibile scenario era catastrofico.
Alla fine fissammo una cena. Quella sera, mentre mangiavamo, le dissi che avevo qualcosa di importante da dirle. Trascinai quel momento per tutto il pasto, balbettando, cercando le parole giuste. Intanto, vedevo che lei diventava sempre più pallida, gli occhi sempre più spalancati. Avevo creato una tensione drammatica, quasi tragica.
E poi, finalmente, riuscii a dirglielo. Mi preparai al peggio.
Ma quello che vidi fu un’espressione di incredulo sollievo. “Tutto qui?” esclamò. “Con tutto quel mistero, ero convinta che mi stessi per dire che avevi un tumore terminale!”
Quella sera imparai una lezione importante. Spesso il timore di non poter dire la verità fa più danni della verità stessa. Per anni non ho mai avuto il coraggio di dirlo a mia madre. Così, lei è morta senza sapere davvero chi fossi.
Negli ultimi anni della sua vita, quando ormai avevo fatto coming out con tutti gli altri, avrei voluto farlo anche con lei. Ma ormai era troppo tardi. L’Alzheimer se l’era portata via. Non solo non avrebbe potuto capirmi, ma non sapeva più nemmeno chi fossi. Non riconosceva più neanche mio padre.
Quel mostro che temiamo per tutta la vita, quell’ombra che si nasconde sotto il letto e ci spaventa, potrebbe essere una minaccia reale. Oppure, quando finalmente troviamo il coraggio di affrontarlo, potremmo scoprire che era solo un innocuo batuffolo di polvere.
Alla fine, la scelta è solo nostra. Possiamo restare nella Chiesa, nonostante chi ci rifiuta, oppure possiamo andarcene perché non siamo i benvenuti. Ma se scegliamo la seconda opzione, stiamo permettendo a chi ci odia di essere più potente del Dio che ci ama.
La reazione di Shawnee non è stata la ragione per cui ho scelto di rimanere cristiana. Nessuno lo è stato. Non ho mai contato i voti per decidere se restare o andarmene. La mia relazione con Dio attraverso Cristo non può, non deve e non dovrà mai dipendere da nessuno, se non da Dio e da me.
Dio mi ha accolta. E io ho scelto di accoglierlo a mia volta. Punto.
* Lori Heine è una scrittrice freelance, autrice del romanzo per giovani adulti Good Clowns (2018). Ha curato il blog Born on 9-11 e collaborato con il sito Liberty Unbound. Nativa di Phoenix (Stati Uniti), ha studiato alla Grand Canyon University e ha lavorato nel settore assicurativo prima di dedicarsi alla scrittura.
** Whosoever è una rivista ecumenica online statunitense, fondata nel 1996, dedicata alla spiritualità e alla fede delle persone LGBTQ+. Il suo obiettivo è offrire riflessioni teologiche, testimonianze e risorse per coloro che cercano un cammino di fede inclusivo, superando il rifiuto e le discriminazioni spesso incontrate nelle comunità religiose tradizionali.
Testo originale: Coming-Out-to-Shawnee Syndrome