La storia di Ali, ragazzo gay in fuga dall’inferno siriano
Articolo di Chérine Yazbeck pubblicato sul sito del quotidiano L’Orient Le Jour (Libano) il 8 febbraio 2016, liberamente tradotto da Marco Galvagno
Ali*, ventotto anni, viveva in pace nella sua città natale di Deir ez-Zor, in Siria. Quando è scoppiata la rivoluzione siriana nel marzo 2011, gestiva un bar nel suo quartiere.
Si è schierato alla svelta con i rivoluzionari, diventando un cittadino giornalista. Un anno dopo l’esercito di Bashar al-Assad bombarda la sua città e la sua famiglia perde la casa. Dopo varie settimane di combattimenti violenti, il Fronte An-Nusra (il braccio armato di Al-Qaida) caccia l’esercito regolare. Ma nel giugno 2014 è lo stato islamico che si impadronisce di Deir ez-Zor. Da allora segue un periodo di oscurantismo, che getta Ali e la sua famiglia nello smarrimento totale.
“I siriani hanno sempre pensato che Deir ez-Zor fosse il medioevo, invece era proprio l’opposto. C’erano molti gruppi di turisti attratti dalle rovine di Mari. La città era un polo dinamico per tutte le comunità. Ogni anno gli armeni facevano un pellegrinaggio alla chiesa dei martiri armeni” ricorda con un pizzico di nostalgia. Nel settembre 2014 lo Stato Islamico, nella sua frenesia distruttrice, ha ridotto la chiesa a un ammasso di macerie.
In Siria la sessualità è sempre stata un tabù, tuttavia sotto il regime di Assad la comunità gay viveva giorni felici. Aveva i suoi codici segreti. Ali ci confida che gli uomini si trovavano grazie all’andatura: “Quando incrociavo un uomo con un’aria vagamente femminile mi avvicinavo a lui e gli chiedevo se era Jaw (cioè dell’ambiente)”.
A Damasco vi erano vari quartieri di battuage come il jabal Kassioun (monte Kassioun) che sovrasta la capitale siriana, dove gli uomini flirtavano tra loro in barba ai soldati del regime.
Per quest’ultimo, la sola linea rossa era la politica. I siti di incontri e altre applicazioni erano diffuse: Grindr, Manjam o Gaydar offrivano molte possibilità di fare conoscenze. Certi amici erano anche vistosi e uscivano truccati per la strada. Ancora più stupefacenti erano le feste nelle sale dei ristoranti, affittate da coppie gay per celebrare i loro fidanzamenti. Ali evoca l’ultima cerimonia prima della rivoluzione, durante la quale una coppia di amici aveva messo dei piattini piccoli dentro piatti grandi, come gesto simbolico per suggellare la loro unione.
Ovviamente il matrimonio gay non era legale, ma nulla impediva ai gay di vivere i loro amori alla luce del sole, tra amici. “Non mi crederete, ma ho passato gli anni più belli della mia vita nel servizio militare”. Il ragazzo ha un ricordo stupendo degli anni passati sotto le armi. Durante il militare ha condiviso la vita quotidiana con gli uomini che amava.
E con il sorriso sulle labbra che ricorda quegli anni magici: “Uno dei miei innamorati mi aveva confessato una cosa bellissima: ogni volta che mi vedeva alla caffetteria era talmente emozionato da non riuscire a mangiare niente. Nell’esercito ho avuto molti amanti, ovviamente facevamo attenzione. Ho vissuto gli anni più belli della mia vita”.
Dopo la rivoluzione ci siamo smontati alla svelta
Dagli inizi della rivoluzione il giovane attivista convoca i suoi compatrioti attraverso una pagina Facebook, ci crede fermamente. Ma il 28 settembre 2012, mentre tutta la famiglia si era riparata a pian terreno nell’appartamento della zia, una granata colpisce l’edificio, provocando un’ecatombe.
I genitori di Ali vengono feriti gravemente e muoiono entrambi: infatti, la famiglia del giovane è venuta a trovarsi in mezzo ai fuochi incrociati dell’esercito e dei ribelli, non riuscendo a raggiungere l’ospedale. Qualche giorno dopo riescono a seppellirli di nascosto in una fossa comune. Ali è distrutto, con aria grave ci confida che in Siria ogni famiglia ha subito almeno una o due perdite. È una tragedia nazionale. Questa data chiave segna l’inizio della discesa all’inferno per la famiglia che non sa più dove nascondersi.
Lo stato islamico obbligava gli abitanti a filmare le esecuzioni sommarie
Il ragazzo testimonia le atrocità che ha vissuto: “Il mio primo shock è stata una convocazione pubblica fatta dai jihadisti. Il rituale consisteva nell’obbligare gli abitanti ad assistere alle condanne a morte dei presunti colpevoli. Non avevamo altra scelta che ubbidire, dato che non si può dire di no al Daesh. Trascinavano sulla pubblica piazza le persone e le giustiziavano in base a false accuse”.
Lo Stato Islamico si è infiltrato tra i gay
Lo Stato Islamico si infiltra in tutti i gruppi per controllarli meglio e distruggerli: per i gay la punizione consiste nell’essere scaraventati giù dal tetto di un palazzo. Ali ha almeno due amici che hanno subito questa triste sorte, ma nulla lasciava presagire il peggio. Per infiltrarsi nell’ambiente un jihadista si era iscritto su un sito gay creando un falso profilo. Dopo aver contattato un ragazzo, Bassam*, gli tende una trappola e lo porta in un posto deserto: prima di morire per le torture subite Bassam parla e rivela tutta la sua agenda di indirizzi e le identità dei suoi partner.
Allertata dalla scomparsa dell’amico la comunità gay cambia abitudini e vestiti. “Ci siamo lasciati crescere la barba e abbiamo assunto un’andatura più virile. Ci siamo resi conto che il Daesh prestava attenzione ai minimi dettagli fisici. I miei amici mi dicevano che ancheggiavo troppo e che bisognava stare attenti, perché potevo essere facilmente individuato. Ho nascosto i miei pantaloni rosa e gialli e mi sono esercitato a camminare in modo più maschile. Non mi riconoscevo più. Mi guardavo allo specchio e vedevo un altro uomo, barbuto e virile. Era come una schizofrenia”, confessa.
Un’odissea dolorosa e l’arrivo in Libano
Ali prepara un piano di fuga. La minaccia si fa sempre più pressante e deve chiudere il bar per ordine dello Stato Islamico: senza soldi, né casa, minacciato di morte, Ali non ha altra scelta che andarsene per avere un futuro migliore. Di famiglia modesta, non aveva mai immaginato di lasciare il Paese. Con il passaporto in mano, decide di prendere la navetta per Beirut. Sull’autobus gli si stringe il cuore. Si lascia alle spalle gran parte della famiglia.
La strada che porta a Damasco è costellata di posti di blocco dello Stato Islamico. I primi tre vengono passati senza inconvenienti. Al quarto, degli uomini salgono sul bus e tirano fuori tre ragazzi, rimproverano loro di essersi tatuati le sopracciglia. Per questa colpa “grave” infliggono ai tre malcapitati ottanta frustate. Dopo un breve controllo dei documenti d’identità, uno di loro viene rilasciato e gli altri due freddati con un colpo in testa. “Sull’autobus eravamo tutti sgomenti, le donne singhiozzavano, mentre gli uomini, impietriti, guardavano per terra. Il ragazzo che era sopravvissuto era terrorizzato, un silenzio di morte regnava per tutto il viaggio, che è durato dodici ore prima di raggiungere Damasco”. Un passeggero del bus gli consiglia di recarsi a Khalde, alla periferia sud di Beirut.
Una volta in Libano, Ali prende un taxi e si trova in un condominio abitato da operai siriani. Giunto sul posto, trova otto uomini che si dividono una grande stanza. Potrà abitarci per la modica somma di cinquanta dollari. Di notte, spossato, viene molestato. Fugge in extremis. Una settimana dopo viene aggredito da dei libanesi per strada: sostengono che abbia un’andatura effeminata e dopo aver scoperto che è siriano lo schiaffeggiano violentemente. Ali è distrutto e pensa al suicidio, ma decide di iscriversi al HCR per chiedere asilo politico: “Ho vissuto l’inferno a Deir az-Zor e a Beirut l’incubo continua” dice con i nervi a fior di pelle.
L’esilio come unica via di fuga per voltar pagina
Iscritto al HCR come gay, Ali spera che la sua domanda venga accettata. Dopo tre anni tumultuosi aspira a una vita migliore in un Paese democratico: “La prima cosa che farò è dormire e pensare agli ultimi anni dei miei genitori. Dirò a me stesso che finalmente posso vivere in un Paese libero, che mi accetti come sono”, sospira piangendo.
*Per ragioni di sicurezza, i nomi sono stati cambiati.
Testo originale: «J’ai caché mes pantalons roses et jaunes, et je me suis entraîné à marcher d’une façon masculine»