L’amore di Franco e Gianni e i due modi di accogliere nella chiesa cattolica
Lettera di Piero Mei (Torino) con risposta pubblicata sul La Repubblica – edizione di Torino del 5 febbraio 2017
Spettabile redazione di Repubblica, ho seguito con commossa attenzione la vicenda di Franco Perrello e Gianni Reinetti, in particolare l’omelia di don Gian Luca Carrega, delegato dell’arcivescovo di Torino per la pastorale delle persone omosessuali, in occasione dei funerali di Franco. Mi ha colpito la storia di questi due uomini ormai molto anziani, che si sono voluti bene per oltre mezzo secolo e hanno coronato la loro storia con la prima unione civile celebrata in questa città (ndr di Torino). In particolare mi ha colpito nel profondo la predica piena di amore e gratitudine. Stavo per scrivere, di tolleranza: ma tolleranza per cosa? Il prete ha chiesto scusa ai due uomini dall’altare, quel luogo solenne, naturalmente per i credenti, e li ha ringraziati per la testimonianza e per l’occasione di accoglienza offerte alla Chiesa e, io credo, all’intera comunità. Forse un mondo migliore è possibile. Forse, mi sono detto, anche un’istituzione millenaria e statica come la Chiesa sta cambiando davvero.
Poi, però, il giorno dopo ho letto la tentennante replica dell’arcivescovo Nosiglia e ho pensato a quanto scrisse Eugenio Scalfari subito dopo l’elezione del nuovo Papa: abbiamo avuto Francesco ma non avremo un altro Francesco.
Piero Mei (Torino)
.
Caro signor Piero, non conosco don Gian Luca Carrega, però mi piacerebbe. Immagino sia uno di quei sacerdoti per Mente baciapile, abituati a chiamare le cose per nome. Ce ne sono. Magari non tanti, ma ce ne sono. Io penso che don Gian Luca piacerebbe anche a Francesco, e visti i personaggi non posso escludere che il Papa gli abbia già telefonato, e abbiano magari chiacchierato come due amici che la vedono allo stesso modo, e alla fine si siano salutati dicendo va bene, portiamo pazienza e andiamo avanti.
Tra l’omelia bellissima, piena di amore e carità di don Gian Luca e gli imbarazzati no comment, non so, vedremo, risponderemo sul giornale della diocesi, dell’arcivescovo Nosiglia, mi pare passino ben più di due giorni. Forse due secoli, o due millenni. Quelli che la Chiesa di Cristo, e di Francesco, ha impiegato per capire e ammettere che l’amore sarà anche uno e trino, ma è soprattutto uno. E non ha genere.
Ricordo le fotografie del matrimonio di Franco e Gianni. Mi avevano molto colpito le espressioni, una in particolare e ora non saprei dire di chi, se dell’uno o dell’altro: c’era, in quel volto, una timidezza felice e senza parole, un candore veramente da sposa. Uno guardo che conteneva, con tutta probabilità, l’intera loro storia, quel mezzo secolo insieme, l’attesa di potersi unire di fronte alla legge e agli uomini, o al Padreterno per chi ci crede, e insieme la paura di non fare in tempo a causa della malattia di Franco.
La gioia, infine, per essere protagonisti della prima unione civile celebrata a Torino. Una festa, ma anche una prova di resistenza durata una vita. Che il senso più profondo e solenne di quell’amore lo abbia colto un sacerdote, fa pensare.
Le parole dell’omelia: quel dire grazie e non solo chiedere scusa, grazie per avere dimostrato che l’accoglienza non è una parola retorica e multiuso, una specie di smacchiatore ipocrita, ma una pratica possibile all’interno di una società migliore, o comunque migliorabile, dunque più giusta.
L’ostinazione dei due sposi ha permesso, secondo don Gian Luca, di pensare una Chiesa e forse una società più accogliente, capace di andare oltre e non lasciare indietro nessuno. Parole per Gianni che resta e per Franco che va, ma anche per tutti quelli che come loro non devono più vergognarsi ma amarsi e basta.