Le chiese devono rinunciare all’omofobia “biblica”
Articolo di Harriet Winn*, pubblicato su Newsroom (Nuova Zelanda) il 31 maggio 2019. Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata.
La ormai famigerata dichiarazione di un pastore integralista, secondo cui le persone queer (“omosessuali”) andrebbero all’inferno, non è solo dannosa per i nostri giovani queer e takatāpui** (persona LGBT in lingua Maori), ma è anche teologicamente scorretta.
E non è solo l’Australia a vivere un’ondata di omofobia religiosa apertamente dichiarata. (…). Ci sono diversi versetti biblici tradizionalmente usati per giustificare la retorica omofoba, ma basterebbero dieci minuti di lettura del contesto storico e religioso di quei passi biblici per smontare qualsiasi argomentazione che pretenda di radicare l’omofobia nella Scrittura.
A un livello ancora più elementare, l’“omosessualità” a cui questi pastori si riferiscono è un concetto moderno, che descrive un’identità basata sull’amore romantico tra persone dello stesso genere. L’omosessualità, come la intendiamo oggi, non esisteva come categoria fino alla fine del XIX secolo. Prima di allora, nel mondo occidentale, gli atti sessuali tra persone dello stesso genere venivano considerati una “tentazione peccaminosa”, ma non il fondamento di un’identità.
I versetti biblici che si riferiscono a comportamenti sessuali tra persone dello stesso sesso, dunque, non condannano l’omosessualità o la queerness, perché queste come categorie sociali non esistevano né nell’Antico Testamento né nel mondo del I secolo del Nuovo Testamento. Questo non significa che non ci siano state persone che abbiano vissuto relazioni affettive con partner dello stesso sesso (anche se non abbiamo prove sufficienti per affermarlo con certezza), ma possiamo dire con sicurezza che l’omosessualità come categoria sociale non esisteva.
Ogni società umana ha proiettato significati diversi sulla sessualità. La divisione eterosessuale/omosessuale è il modo con cui la società moderna, prevalentemente occidentale, ha scelto di interpretare l’esperienza sessuale. Nella società greco-romana il sesso era legato al potere; oggi è legato all’identità personale. Una comprensione storicamente univoca e immutabile della sessualità semplicemente non esiste.
Se davvero questi pastori integralisti vogliono basare la loro omofobia su versetti biblici scritti migliaia di anni fa senza tener conto del contesto, allora bisognerebbe chiedere loro se evitano accuratamente di mangiare ostriche e se, prima di indossare una maglietta, controllano sempre che sia di puro cotone e non di tessuto misto.
Uno dei versetti biblici spesso usati in chiave omofoba è Levitico 18,22: “Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è abominio”. Ma questo versetto non si riferisce a una relazione amorosa e consensuale tra due adulti: è una legge che vieta la promiscuità sessuale. Le leggi levitiche furono ricevute … come linee guida da parte di Dio per il popolo d’Israele, in fuga dall’Egitto, affinché potesse rimanere fedele al Signore. Quelle leggi erano 613 e comprendevano anche il divieto di mangiare crostacei o di indossare abiti tessuti con fibre miste.
Essere in grado di smontare un’argomentazione omofoba basata sulla religione è utile, certo, ma non basta a salvare i giovani queer e takatāpui dal danno provocato dalla retorica violenta di predicatori così noti. Lo ha sottolineato con forza la deputata laburista Louisa Wall in una recente intervista televisiva, ed lo ha ribadito commosso Ian Roberts, il primo giocatore di rugby al mondo a dichiararsi gay, che in diretta tv ha supplicato: “Ci sono ragazzi che si tolgono la vita per queste parole … frasi del genere possono davvero spingerli oltre il limite.”
Come proteggere allora le persone queer e takatāpui dai discorsi d’odio omofobi? Le chiese non possono lasciare queste persone nell’incertezza su un’eventuale accoglienza. Devono dichiararsi in modo esplicito e inequivocabile favorevoli alle identità e alle relazioni queer. La storia dell’omofobia all’interno del cristianesimo è troppo pesante, troppo radicata, perché le chiese possano permettersi di restare in silenzio.
Essere queer e cristiani, per molti, è diventata una parte armoniosa e imprescindibile della propria identità, e le dichiarazioni ostili di certi predicatori non possono intaccarla.
Non sono state tanto le interpretazioni omofobe della Bibbia a farmi perdere il legame con la chiesa, quanto piuttosto l’indifferenza istituzionale. Quando chiesi in un campo giovanile cristiano quale fosse la posizione della Bibbia sulle persone gay, l’unica risposta fu: “Dobbiamo proprio parlarne?” Questa indifferenza, quando arriva da guide spirituali, è devastante per i giovani queer in cerca di sostegno.
La teologia queer offre alle chiese una preziosa occasione per mettere in discussione le radici della teologia cristiana tradizionale, che troppo spesso ha contribuito all’esclusione delle persone queer. Come scrive il pastore episcopaliano Patrick Cheng, la teologia queer offre una visione di cristianesimo incondizionatamente accogliente, che abbraccia la diversità e la usa per creare una “comunità radicale d’amore”.
Questa prospettiva inclusiva chiarisce pazientemente i fraintendimenti delle Scritture, sfida i cristiani ad ammettere che l’omofobia non è biblica, e include consapevolmente le persone queer nel cammino di fede.
E le comunità queer di fede non esistono solo nei libri di teologia o in chiese sconosciute: sono vive e presenti nella nostra Aotearoa Nuova Zelanda. Ad Auckland, la Rainbow Community Church si riunisce ogni settimana a St Matthew in the City, offrendo alle persone queer uno spazio sicuro e accogliente.
Il dibattito nelle chiese deve spostarsi dalla domanda se la queerness sia “moralmente accettabile” a come dimostrare concretamente che c’è posto per le persone LGBTQIA nei banchi. La teologia queer ha permesso a tanti cristiani queer di riconciliare la propria sessualità con la fede in un Dio senza genere, promotore di un amore radicale. Essere queer e cristiani, per molti, è diventata un’armonia interiore che nessuna dichiarazione ostile potrà scalfire. Essere queer, in fondo, significa semplicemente essere umani.
La sfida oggi è impedire che i cristiani queer vengano resi invisibili da una chiesa che continua a non confrontarsi con il proprio retaggio di omofobia. Il silenzio delle chiese di fronte a personaggi pubblici che giustificano l’omofobia con la fede ha un impatto concreto: alimenta un’indifferenza istituzionale che spinge i giovani a lasciare le panche e, nei casi più gravi, a dubitare del proprio valore.
Il dibattito sta cambiando e non bastano più singoli sostenitori. Abbiamo bisogno che le chiese, come comunità, parlino a voce alta e unanime, rinunciando una volta per tutte alle interpretazioni bibliche che giustificano l’omofobia.
*Harriet Winn è una studentessa laureanda con lode presso la Faculty of Arts dell’Università di Auckland. I suoi interessi di ricerca comprendono la teologia queer e le storie di genere nel cristianesimo.
** Il termine Māori “takatāpui” indica una persona LGBTQIA+ che si riconosce come appartenente al popolo Māori. In origine significava “compagno intimo dello stesso sesso”, oggi è un termine identitario che lega insieme orientamento sessuale/genere e cultura indigena.
Nota redazionale: Nel testo originale l’autrice fa riferimento alle dichiarazioni di due pastori molto noti in Australia e Nuova Zelanda. Per la pubblicazione in italiano abbiamo preferito non riportarne i nomi, sostituendoli con l’espressione “pastore” o “pastori integralisti”, così da evidenziare il problema più ampio dell’uso strumentale della Bibbia a sostegno di posizioni omofobe, senza personalizzare eccessivamente il dibattito.
Testo originale: Church must renounce biblical-based homophobia

