Le parole del giubileo: “Apritemi le porte della giustizia!”
Riflessioni di Paolo Spina*
“Apritemi le porte della giustizia!”. Quando gli occhi del mondo, la sera del 24 dicembre, saranno puntati su Papa Francesco, dall’incedere ormai malfermo e dalla voce ogni tanto roca e affaticata, sarà questo versetto del salmo 117 a dare inizio all’anno del giubileo, con l’apertura della porta santa della basilica vaticana.
Non altre parole, solo quelle della Scrittura, che perfino il rito antico, così ligio alla forma e alla pompa delle strutture, tra cerimonieri che lavavano gli stipiti delle porte, piviali, triregni e martelli argentati, ogni voce faceva arrestare davanti alla soglia di una porta e soprattutto di un anno diverso dagli altri, per tornare all’ascolto di una Parola speciale, non comune, tra le tante.
Come per ogni macchina che si mette in moto per un grande evento, in queste settimane le opinioni in merito sono variegate: chi considera il rito un anacronismo medievale, utile solo ad aver dato fuoco alle polveri dello scisma d’occidente e della riforma protestante, chi ne invoca il senso biblico originario, riscoprendo la remissione del debito e la cancellazione di ogni forma di schiavitù ancora esistente, e chi si stupisce, di gioia e ammirazione oppure con riprovazione o sdegno, che anche chi abiti le frontiere del mondo LGBT+ possa voler partecipare, mettendosi in cammino verso la porta santa.
I battenti di questa porta si apriranno su una basilica non diversa da quella del 23 dicembre: il baldacchino forse meno impolverato, le statue dei dottori della Chiesa, la folla che mischia visitatori, pellegrini, appassionati d’arte, curiosi. Ciò che la porta schiuderà non sarà nemmeno un anno così diverso dagli altri: non cancellerà i conflitti mondiali – e nemmeno quelli condominiali – non garantirà il buonsenso di chi ci governa, né quello del parroco o del vicinato. L’anno del giubileo può essere, però, un anno particolare. Un anno che non inizia con una petizione ufficiale, o con una preghiera devota, ma con un imperativo: Apritemi le porte della giustizia! Non sono quelle del tribunale, o quelle dell’ufficio del legislatore, spalancate dove è garantito il rispetto dei diritti per tutti e per davvero. Quelle di cui parla il salmista sono le porte del tempio di Gerusalemme, il luogo più sacro per ogni credente.
Anche noi avvertiamo il peso specifico di questo testo, che per secoli è risuonato nelle sinagoghe e nelle chiese, sulle righe dei breviari dei curati di campagna e sulle labbra dei pontefici in San Pietro, e che oggi pronunciamo e preghiamo con gioiosa determinazione, marcando bene quel punto esclamativo: Apritemi le porte della giustizia!
Non sia chiusa, per noi e per nessuno, la soglia di un tempio che non è solo luogo di culto, a cui hanno accesso i perfetti, ma una casa preparata da Dio stesso: “io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome più prezioso che figli e figlie […] perché la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli” (Isaia 56,5-7). Una casa, dove ci si sente in famiglia, libere e liberi di stare alla presenza dei propri cari come si è, e di amare chi il cuore comanda.
Non sia chiusa, per noi e per nessuno, la soglia di una Chiesa che, insieme a noi, mendica e offre speranza, aprendo non solo porte di basiliche e cattedrali, ma camminando su strade ancora non tracciate: non per capriccio di novità, ma per infrangere contesti di solitudine e disperazione. È camminando che si apre il cammino, è condividendo i passi, provando le scarpe degli altri, anche quelle più scomode, che si scoprono tesori di grazia nascosti dove non si immagina!
Perché si debbono spalancare queste porte? Perché è giusto. La giustizia n on è un dogma, un assioma o una tautologia ma, per chi crede, è uno dei nomi di Dio, a cui piace altrettanto farsi chiamare amore e verità. Le porte della casa di Dio non si aprono sulla rivalsa, sulla vendetta, sulla prevaricazione; spezzando i pregiudizi, le porte della casa di Dio si spalancano come porte di giustizia, perché si adempia ancora la profezia che Gesù stesso riprese leggendola nella sinagoga a Nazaret: “Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore” (Isaia 61,1-2).
Una volta la porta santa si apriva a colpi di martello: un colpetto iniziale da parte del Papa, con un grazioso oggetto in metallo pregiato, seguito da chi, a sonore mazzate, liberava dai mattoni l’accesso alla porta santa. Io sono profondamente convinto che la Chiesa non sia un baluardo da espugnare ma, come insegna la Scrittura, che le mura di Gerico non cadono con gli eserciti e tra le granate; le mura di Gerico cadono al suono della tromba – come lo yobel, il corno di montone suonato per indicare l’inizio del giubileo ebraico – cadono quando il cuore è in festa e danza, anche quando il ballo è ritmato da note di promessa e profezia, e non ancora di gioia piena. Una gioia da per-correre, da attraversare, cioè, correndo fino alla fine, senza stancarsi, fino alla meta, senza tagliare la corda, ma desiderando tagliare il traguardo.
Anche quando la porta sembra spesso chiusa, sappiamo che c’è Chi la apre, anche per noi: Apritemi le porte della giustizia!
*Paolo Spina è un medico, appassionato di Sacra Scrittura e teologia femminista e queer, che collabora con il Progetto Cristiani LGBT+ e con La tenda di Gionata scrivendo su temi di attualità e cristianesimo.