Le vite invisibili dei gay musulmani
Articolo di Paolo Hutter tratto dal settimanale D. La Repubblica delle donne, n.530, 23 dicembre 2006, , pp.114-118
Quando ha scoperto di essere gay, Ubaid, 30 anni, di famiglia pakistana, ha iniziato a pregare perché gli passasse. «Sono sempre stato molto religioso», dice. Anni dopo aver rifiutato un matrimonio combinato ha deciso di venire allo scoperto. Oggi è un leader di lmaan, il gruppo di gay, lesbiche, bisessuali e transgender musulmani del Regno Unito.
I gay musulmani non sono più invisibili. Se fino a qualche anno fa il coming out era una scelta riservata a laici coraggiosi, come avveniva in My Beautiful Laundrette, il fortunato film di Stephen Frears, oggi questo succede con musulmani praticanti che vogliono restare tali.
Il network di aiuto lmaan rappresenta la realtà più avanzata a livello europeo. A Parigi c’è il gruppo Kelma, ma è beur, ovvero si tratta di ragazzi che parlano arabo e francese ma non sono religiosi praticanti. A Berlino e a Madrid non ci sono ancora delle organizzazioni, per non parlare delle città italiane, dove i musulmani gay non sono ancora venuti fuori.
I protagonisti londinesi invece sono quasi tutti nati e cresciuti in Inghilterra, e quindi molto scolarizzati. lmaan in particolare è la derivazione britannica di un’associazione, Al Fatiha, che è nata negli Stati Uniti su Internet. Il loro sito spiega che il Corano non condanna l’omosessualità, che la legge islamica non è immutabile, che il mondo è pieno di musulmani gay, lesbiche e bisessuali, che i loro genitori si possono tranquillizzare.
Dice Ubaid: «Oggi le nostre maggiori preoccupazioni sono l’Islamofobia nella comunità gay e i musulmani che dicono che non si può essere credenti e gay allo stesso tempo». Al Pride londinese dell’estate scorsa ho visto per la prima volta sfilare un carro di gay e lesbiche dal volto semicoperto, di aspetto mediorientale con cartelli che declamavano “Proud To Be Gay, Proud To Se Muslim”.
E tutto questo succedeva pochi giorni prima del primo anniversario dell’impiccagione in Iran di due diciottenni colpevoli di avere rapporti sessuali. Non solo. Qualche settimana dopo due gay – uno di origine turca e l’altro libanese – si sono anche sposati, cioè hanno usufruito della legge inglese che riconosce le relazioni tra due persone dello stesso sesso.
Omar, 23 anni, e Kemal, 25, hanno voluto farlo per coerenza, per coscienza e naturalmente per amore, in forma privata e senza darsi in pasto ai mass media. «Siamo una città veramente multietnica e questo inizia a riflettersi anche nell’ambiente gay», mi raccontava l’ispettore Stephen Warwick della Metropolitan Police, gay e specialista contro l’omofobia. «Conosco molti gay islamici, e so di parecchi che sono tranquillamente conosciuti come tali e accettati nei loro ambienti.
La fede e gli ambienti islamici sono molto più inclusivi e tolleranti di quel che comunemente si pensi», riprende Warwick. «lo stesso ho avuto una relazione con un mezzo pachistano. Naturalmente ce ne sono anche di velati e nascosti. Ma non è facile dire in che proporzione». «Quasi tutti abbiamo fatto il coming out in famiglia e viviamo abbastanza bene», conferma Qurra, del gruppo emergente Lgbt islamico, che al Pride era protetto da kefia e occhiali, «ma quasi nessuno di noi vuole essere completamente riconoscibile sui media. C’è ancora una certa riservatezza per non mettere in difficoltà le nostre famiglie con altri parenti o con i vicini».
Mi trovo alla conferenza di Amnesty International Prides contro il pregiudizio dove in una conferenza sono emersi per la prima volta anche una coppia di genitori che hanno raccontato come è stato duro per loro accettare l’omosessualità del figlio e come continui a essere difficile spiegare agli altri parenti perché il figlio “ancora” non si sposa. Più tardi incontro anche il leader di Lgbt, Hannaan, e Khi Rafa, leader del gruppo di lesbiche nere di Bluk, Black Lesbians UK. La nostra conversazione assume un immediato sapore politico. Loro ci tengono a difendere le loro comunità da possibili pregiudizi ” bianchi”.
«Le nostre difficoltà sono innanzitutto col razzismo, poi col sessismo e infine con l’omofobia», dice Khi Rafa. E Hannaan definisce il suo gruppo come quello che “da semplice strumento di aiuto per persone che si sentivano isolate è diventato un’associazione che sostiene la sfida contro la islamofobia nel mondo lgbt e la omofobia nelle comunità islamiche”.
Quando ipotizzo che il peggior nemico di gay e lesbiche nel mondo è il fondamentalismo islamico i miei interlocutori si ribellano all’unisono. « E’ un pregiudizio. Ci sono stati attentati mortali a Londra contro locali gay da parte di estremisti cristiani omofobi», risponde Hannan. Per loro non c’è più fondamentalismo islamico che cattolico o cristiano. «Ci sono omofobi in tutti i Paesi, le comunità, le religioni», dice Khin Rifa.
Con l’Islam condividiamo alcune questioni politiche fondamentali, come la causa palestinese», dice Hanaan, «Poi è chiaro che noi difendiamo la nostra vita, i nostri diritti, la fierezza di essere gay e Iesbiche. No, secondo noi, il Corano non condanna l’amore omosessuale. Ma a parte politica e teologia ci occupiamo dì aiutare chi è appena arrivato e richiede asilo per sfuggire a persecuzioni omofobe di Paesi rischiosi».
Gli chiedo se hanno uno stile diverso da quello dei gay bianchi. Siamo molto diversificati, non c’è una linea da seguire. Ci sono quelli che frequentano i locali notturni e quelli che fanno vita più ritirata».
Non hanno voglia di raccontarmi episodi di vita personale. Dopotutto sono un giornalista. E’ successo anche qualche mese fa quando Channel Four ha mandato in onda il primo documentario su questa realtà: l’unico ad essere stato intervistato col volto scoperto è stato il leader di lmaan. In più sospettano che sia un islamofobo.
A essere riabilitato mi aiuta il colloquio con Ali Hili, iracheno richiedente asilo, 33 enne, superintervistato anche dalla Bbc. «Sono venuto a Londra poco prima dell’invasione perché la situazione economica dell’Irak era insopportabile», dice. «Ma adesso lì è diventato pericolosissimo essere gay, si stava molto meglio sotto Saddam. Mentre prima non eravamo perseguitati in quanto gay, adesso l’invasione ha dato pretesto e slancio alle correnti filo-iraniane. E davvero si rischia la vita».
Ali Hilli si arrangia tra aiuti della famiglia e degli amici nella speranza che gli venga riconosciuto l’asilo politico e intanto raccoglie firme sotto a una petizione rivolta al governo iracheno per proteggere lesbiche e omosessuali. Un risultato c’è già stato: dal sito web dell’Ayatollah Sistani è stata tolta la “fatwa” che incitava a uccidere gli omosessuali. Di Londra Ali Hilli dice che non è difficile vivere apertamente da gay negli ambienti mediorientali. Certo la mia famiglia la vede un po’ diversamente, ma sono sfumature culturali e generazionali, come dappertutto. E poi pensa, il mio ragazzo è ebreo».
Malgrado l’atmosfera di apertura della conferenza, la diffidenza nei confronti dei media è ancora palpabile. Ma questo si spiega anche con la particolare situazione britannica. Sebbene la polizia londinese dichiari di non avere pregiudizi contro la comunità islamica (“Mi sono occupato di lotta al terrorismo e mi son trovato anche vicino alle bombe del 7 luglio, ma questo non ha cambiato il mio atteggiamento nei confronti dell’islam»” dice l’agente Warwick) la realtà è più variegata.
Una volta l’anno scorso l’appartamento di lmaan, in genere usato come rifugio per i perseguitati, venne circondato dalla polizia. Quando han capito che era un network di supporto gay i poliziotti han tirato un respiro di sollievo. Credevano di essere sulle tracce di una cellula terrorista e invece erano capitati nel quartier generale della possibile conciliazione tra religione e omosessualità.