Leggere Dio e la Torah con una prospettiva transgender
Testimonianza di Joy Ladin* estratta dall’introduzione del libro The Soul of the Stranger – Reading God and Torah from a Transgender Perspective di Joy Ladin*, 2018, Brandeis University Press, liberamente tradotto da Valeria e Luigi de La Tenda di Gionata.
Spesso mi viene chiesto come concilio l’essere credente con l’essere una persona transgender. Per me non c’è mai stato un conflitto tra le due cose. Da sempre ho sentito interiormente di essere donna e da sempre ho percepito la presenza di Dio.
Sono cresciuta circondata da persone per le quali Dio è “Dio”, una parola vuota, una superstizione superata, un bersaglio della rabbia per l’Olocausto e per altre tragedie, un simbolo di ideali che gli esseri umani fanno fatica a rispettare.
Anche alla scuola ebraica e in sinagoga, non osavo far intuire a nessuno che per me Dio non era un’astrazione, ma qualcuno che era lì, invisibile ma reale come il freddo, il caldo o l’umidità dell’aria.
Nessun altro che conoscevo sembrava sperimentare Dio come una presenza viva. Ma quando leggevo la Torah, era questo il Dio che vi trovavo. La Torah descrive Dio come appassionatamente coinvolto nella vita delle persone, non solo di individui straordinari come Abramo e Sara, ma di tutti.
Dio non compra nè vende, ma esige che gli esseri umani lo facciano onestamente. Dio non ha genitori, ma si preoccupa di come trattiamo i nostri. Dio non vive nello spazio o nel tempo, non è soggetto alla carestia o all’abbondanza, al giorno o alla notte, alla nascita o alla morte, ma vuole che diamo un senso alle stagioni e alle vicende della nostra vita.
Ma la Torah chiarisce anche che, sebbene Dio sia presente e coinvolto personalmente nella vita degli uomini, Dio non è umano. Dio non ha volto, non ha forma, non ha inizio né fine e non può essere compreso in nessuno dei termini che usiamo per capire noi stessi e il nostro mondo.
Questo Dio invisibile, incomprensibile, ma indiscutibilmente presente, è il Dio con cui sono cresciuta, non perché la mia famiglia fosse religiosa (non lo era), non perché leggessimo insieme la Torah (non lo facevamo), non perché gli insegnanti o le guide religiose mi abbiano insegnato a pensare a Dio in questo modo (non mi hanno insegnato affatto a pensare a Dio), ma perché, da quando ho memoria, questo è stato il Dio con cui mi sono svegliata e con cui mi sono addormentata, il Dio a cui ho sussurrato e con cui ho pianto, che ho supplicato e a cui talvolta ho urlato la mia rabbia.
Per me Dio non era un’esperienza mistica; Dio era un fatto della vita, come i miei genitori. Ma mi sentivo più vicina a Dio che ai miei genitori. I miei genitori, come altri esseri umani, mi identificavano con il mio corpo maschile. Per loro ero un ragazzo di nome Jay e, sia perché li amavo sia perché ero terrorizzata dall’idea di essere rifiutata se avessero intuito la verità, facevo del mio meglio per comportarmi come il ragazzo che pensavano fossi.
Dio sapeva chi ero veramente e capiva quanto mi sentivo sola, perché Dio, come me, non aveva un corpo che lo rendesse visibile, né un volto che gli esseri umani potessero vedere.
Da piccola non ero così diverso dai bambini con cui ero cresciuto. Ma nonostante i molti aspetti per cui ero simile agli altri bambini, ho sempre sentito di essere qualcos’altro, qualcosa che non aveva un nome o un posto nel mondo.
Oggi direi che, non rientrando nel rigido dualismo di genere che definisce tutti come maschi o femmine, non potevo sentirmi davvero parte dell’umanità. Ma quando ero bambina, tutto ciò che sapevo era che il mio sentirmi interiormente femminile mi rendeva diversa in modi che erano imbarazzanti e pericolosi, modi che impedivano agli altri di vedermi, comprendermi o amarmi. Presente ma invisibile, mi sentivo come un fantasma, che tormentava ed era nascosto dentro il corpo del ragazzo che tutti pensavano fossi.
Naturalmente, nessuno di noi è esattamente quello che sembra. Poche persone pensano che il loro corpo esprima perfettamente ciò che sono, o che sentano e agiscano sempre in modi che si conformino alle idee che gli altri hanno di loro.
Le identità di genere, come tutte le identità, sono sempre dei compromessi che richiedono a ciascuno di noi di sacrificare una parte della propria percezione di sé multiforme e caotica per adattarsi ai contesti delle nostre famiglie, amicizie e comunità.
Ma quando si trattava della mia identità di genere, non riuscivo a fare quel compromesso. Potevo, e lo facevo, comportarmi come il ragazzo che si aspettavano che fossi, ma non riuscivo a sentire di essere davvero quel ragazzo, non riuscivo a identificarmi con altri ragazzi, non sentivo di essere davvero presente in nessuna relazione, perché ogni relazione era basata sul genere. Così, anche se ero circondata da persone che pensavano di conoscermi, sono cresciuta sentendomi invisibile, spaventata e sola.
Ma ero sola con Dio. Tutte le cose che mi tenevano lontano dagli altri – la mancanza di un corpo che sentissi mio, l’incapacità di rientrare nelle categorie di genere, la sensazione di essere completamente, indicibilmente diversa – mi facevano sentire più vicina a Dio. Dio sapeva chi e cosa ero.
Dio mi aveva creato, mettendo insieme il mio corpo e la mia anima apparentemente mal assortiti. Dio era sempre presente, giorno e notte, mentre cercavo di sopravvivere e – a volte – di morire.
E così, da sempre, l’essere una persona transgender mi ha avvicinato a Dio. Può sembrare strano. Sia le persone di fede che quelle non credenti tendono a pensare alle identità transgender come intrinsecamente terrene e corporee.
Ma ci sono molte persone credenti il cui rapporto con Dio è stato profondamente plasmato dall’essere transgender perché, lottando con la sofferenza, l’isolamento e le domande su chi fossero e come dovessero vivere, si sono rivolte a Dio – come qualsiasi altra persona di fede – per trovare la comprensione che non riuscivano a trovare tra gli esseri umani.
In realtà, la maggior parte delle tradizioni religiose riconosce che le condizioni che ci separano dagli altri possono avvicinarci a Dio.
Ma se avessi detto al mio rabbino, ai miei insegnanti di scuola ebraica, ai miei genitori o alle guide della comunità che io e Dio ci compativamo continuamente a vicenda per la difficoltà di amare persone che non potevano vederci o capirci, senza dubbio mi avrebbero detto che il Creatore dell’Universo non ha l’abitudine di parlare con i bambini, e certamente non con bambini che non rientrano nelle categorie di maschio o femmina.
Anche se oggi c’è un riconoscimento molto maggiore delle persone transgender rispetto a quando sono cresciuta io e ci sono più comunità di fede che accettano senza problemi membri transgender, anche le comunità più accoglienti hanno appena iniziato a considerare la possibilità che le tradizioni religiose basate sul presupposto che gli esseri umani sono sempre e comunque maschi o femmine possano avere qualcosa da dire anche a persone che non rientrano in quelle categorie.
Come spero di dimostrare in questo libro, le tradizioni religiose basate sul dualismo maschio – femmina possono parlare e di fatto parlano alla vita di coloro che non rientrano nelle categorie binarie di genere, il che significa che le comunità religiose possono includere persone apertamente transgender senza abbandonare o tradire quelle tradizioni.
Ogni comunità religiosa che accoglie persone che non rientrano nel binarismo di genere onora quella immagine del Dio incomprensibile nella quale, come ci dice il primo capitolo della Genesi, tutti gli esseri umani sono stati creati.
Infatti, se prendiamo sul serio l’idea che gli esseri umani sono creati a immagine di Dio, ogni volta che espandiamo la nostra comprensione dell’umanità, possiamo espandere la nostra comprensione di Dio.
In effetti, secondo la tradizione ebraica, non c’è nulla di sbagliato nel leggere la Torah in termini di idee e prospettive sorte dopo la sua stesura. In altre parole, coloro che, nel tempo, studiano e interpretano la Torah stanno semplicemente scoprendo il significato che, secondo i rabbini, Dio ha seminato nelle sue pagine.
Leggendo la Torah da una prospettiva transgender, quindi, non sto cercando di renderla “queer”, o “trans” o di reinventarla in altro modo. Come i rabbini, credo che tutte le interpretazioni, comprese quelle da questa prospettiva, siano già presenti come semi nella Torah, in attesa che noi le scopriamo, e come i rabbini, credo che le nuove interpretazioni si aggiungano anziché essere alternative alle concezioni tradizionali.
I quesiti che cerco di approfondire in questo libro hanno influenzato il mio rapporto con la Torah fin da quando ero bambina e sono cresciuti dentro di me man mano che crescevo, chiamandomi a riconoscere e onorare la mia profonda appartenenza all’umanità e a Dio.
Dopo aver letto la Torah nella sinagoga, cantiamo un versetto dei Proverbi che afferma che vediamo la Torah come “un albero di vita” (Prov. 3:18). Per me, la Torah non è solo l’albero della vita in generale: è l’albero della mia vita.
Attraverso il terrore e il senso di solitudine che derivava dalla percezione di essere un bambino senza corpo, l’isolamento e la disperazione di vivere per decenni come un uomo che sapevo di non essere, fino al miracolo quotidiano di svegliarmi come me stessa ancora incompiuta, mi sono aggrappata a quell’albero, sapendo che la Torah mi sostiene, mi parla, mi ricorda che la mia vita, come quella dei miei antenati, è un giorno che Dio ha fatto, una piccola espressione incomprensibile di quel Dio immenso e incomprensibile che ha incomprensibilmente creato ciascuno di noi.
*Joy Ladin è una poetessa e scrittrice americana, docente di inglese allo Stern College for Women della Yeshiva University (New York, USA). È stata la prima docente dichiaratamente transgender in una istituzione universitaria ebrea ortodossa.
Testo originale: Introdution