Linguaggi inclusivi. I nomi dell’arcobaleno umano
Intervento tenuto da Vera Gheno* all’incontro “PIETRE D’ANGOLO” (Firenze, 5 aprile 2025). Trascrizione rivista dall’autrice, realizzata dai volontari de La tenda di Gionata
Mi sono ritrovata spesso – e continuo a ritrovarmi – a lavorare con quelle che potremmo chiamare le frange progressiste del mondo religioso, non soltanto cattolico o cristiano, ma anche di altri culti. Quindi non ho nessun pregiudizio negativo nei confronti di questi contesti.
Questo tipo di dialogo esiste, e per me è molto importante, anche perché credo che quelli come il vostro siano tra i contesti in cui si riflette di più sul valore della parola. Cioè, sulla parola si fanno tante discussioni metacognitive, forse più che altrove, e quindi ben vengano le ibridazioni.
Volevo affrontare due questioni. La prima è che sì, mi occupo di lingua. Però l’accusa che mi viene rivolta più spesso è che, parlando di lingua, non mi occuperei di altre questioni, di problemi “più seri”. Spesso si dice: “Ma i problemi sono ben altri!” e si tirano fuori esempi come la questione dei nomina agentis al femminile, l’autonominarsi nella comunità LGBTQ+, oppure il modo in cui si parla della disabilità, eccetera. Insomma, si tende a minimizzare: “Eh vabbè, sono solo parole, i problemi veri sono altri“.
Immagino che anche voi, nei vostri contesti, vi siate trovati a dover affrontare questo tipo di benaltrismo, che si insinua facilmente ovunque. Come rispondere al benaltrismo, soprattutto quando riguarda il rapporto tra lingua e realtà?
Allora: noi esseri umani abbiamo il logos, la parola, come matrice cognitiva per comprendere la realtà. Conosciamo il mondo attraverso le parole. Lo insegna già la Bibbia, nel libro della Genesi: Adamo nomina gli animali, gli uccelli, ogni creatura. Il senso del nominare la realtà è proprio quello di poterne parlare. Nominiamo esperienze, oggetti, fenomeni, perché così possiamo fare una cosa che – per quanto ne sappiamo – è esclusivamente umana: scambiarci informazioni. La parola rende trasportabile l’informazione nello spazio e nel tempo.
Possiamo così comunicare a distanza, oppure lasciare tracce che durano migliaia di anni: leggiamo testi antichi, registriamo voci che possono essere ascoltate ovunque, se c’è Internet. Non siamo più limitati alla presenza fisica. E sottolineo questo aspetto perché è uno degli argomenti principali a favore della cura della parola. Qualunque sia l’istanza che vi sta più a cuore – la situazione in Palestina, le manovre contro la comunità transgender, i diritti delle persone con disabilità, il problema della casa – per parlarne, servono le parole.
La competenza linguistica attraversa tutti gli ambiti. Non faremo mai una manifestazione senza le parole, né un’assemblea, né un ragionamento collettivo. Dire che “le parole sono solo parole” non coglie che fra lingua e realtà esiste una relazione profondissima, e complessa. Non è una relazione a senso unico. Non è che la realtà cambi la lingua e basta, oppure che la lingua cambi magicamente la realtà, come fossimo a Hogwarts.
C’è una relazione complessa, quasi “quantistica”, come diceva Benjamin Lee Whorf negli anni ’30: toccare uno dei due piani ha effetti anche sull’altro. Le parole non cambiano direttamente la realtà – non sono formule magiche – ma cambiano la narrazione della realtà. E se cambia la narrazione, come dice bene Iacopo Melio, può nascere il desiderio di cambiare anche la realtà stessa.
La parola agisce sul modo in cui vediamo il mondo: sugli immaginari, sulle tradizioni, sui giudizi, sui pregiudizi. Cambiare il modo di parlare può aiutare a cambiare anche il modo di pensare. Questo è il punto centrale.
Vi faccio un esempio. Riguarda la disabilità, che è fuori dall’ambito LGBTQ+, ma è molto significativo.
Negli ultimi decenni abbiamo fatto un percorso lunghissimo. Quando ero giovane io, trent’anni fa, si usava comunemente la parola “handicappato”. Poi si è passati a usare “disabile” come sostantivo e si sono aperte due strade: da una parte “diversamente abile”, dall’altra “persona con disabilità” o “persona disabile”. C’è da dire che “handicap” viene dallo sport: indica un meccanismo per compensare delle differenze, ad esempio nell’ippica o nel golf (lo sport preferito dal presidente Trump, che in questi giorni si dedica parecchio al golf, visto che nel mondo non succede nulla…).
Usare “disabile” come sostantivo ha però il problema di ridurre la persona a una sola caratteristica, ed è per questo che si preferisce dire “persona con disabilità”, secondo il principio del “person first” (“prima la persona”). Cioè: non è la disabilità a definire chi sei, sei prima di tutto una persona. La formula “diversamente abile”, invece, è un eccesso di politicamente corretto che non proviene nemmeno dalla comunità delle persone con disabilità.
Ve lo sconsiglio: non solo perché sembra suggerire che ogni persona disabile abbia superpoteri (e non è così), ma anche perché trasmette l’idea che la disabilità sia qualcosa di cui vergognarsi, da “camuffare”. È lo stesso meccanismo che porta a usare “non vedente” invece di “cieco” o “non udente” invece di “sordo”, quando invece le persone cieche e sorde usano tranquillamente questi termini per autodefinirsi. Tanto è vero che le loro associazioni si chiamano appunto “Unione Italiana dei Ciechi” e “Ente Nazionale Sordi”.
Oggi, soprattutto nel mondo anglofono, si sta diffondendo l’espressione “persona disabilitata” o “disabilizzata” (disabled person). Non è un dettaglio: “persona disabilitata” spinge a chiedersi da cosa o da chi quella persona sia stata disabilitata. La riflessione è che molto spesso la disabilità non è un problema della persona, ma della società che non riesce ad accogliere quella caratteristica.
Pensateci: se lo standard umano fosse nascere senza gambe, tutta la società – treni, scuole, marciapiedi – sarebbe a misura di sedia a rotelle. Quindi la disabilità dipende spesso dal contesto, non dalla persona. Parlare di “persona disabilitata” aiuta a spostare il focus: dalla responsabilità individuale a quella collettiva. Questo è un esempio concreto di come il cambiamento delle parole possa modificare anche la percezione della realtà.
Parlare di parole, quindi, non significa restare in superficie. Non si tratta di una patina, di un “washing” (tipo “rainbow washing”, “green washing”, eccetera). Le parole devono restare agganciate alla realtà. Il mio carissimo collega Federico Faloppa – un linguista così bravo che infatti lavora nel Regno Unito, perché da noi spesso i migliori se ne vanno – dice sempre che le parole devono essere bullonate alla realtà. E a me questa immagine piace tantissimo. Quindi, tutto il mio discorso sulle parole non riguarda solo l’apparenza, ma tocca livelli profondi della realtà.
Detto questo, ho visto che tra le domande che mi sono arrivate ce ne sono alcune che parlano di inclusione. Allora: a me l’inclusione non basta. Contesto fortemente i limiti del concetto di inclusione. E non ci sono arrivata da sola. Lo vedete: sono una donna bianca, eterosessuale, cisgender, senza particolari caratteristiche atipiche.
Se mi guardate di fretta, sembro quasi una persona “normale” (poi ci sono questi disdicevoli tatuaggi che raccontano un’altra storia, ma vabbè). Forse proprio per via del mio punto di vista, all’inizio “inclusione” e “inclusività” mi sembravano parole bellissime. Poi, grazie a Fabrizio Acanfora – caro amico e collega, persona autistica e omosessuale – ho cominciato a vederne i limiti.
Fabrizio mi ha invitato ad andare a vedere la definizione di “inclusività” sullo Zingarelli: “capacità di includere, accogliere, non discriminare” Sembra bellissimo, no? Peccato che, nella definizione, non si dica nulla di chi viene incluso, accolto e non discriminato. La prospettiva resta quella del “noi” che includiamo “loro”.
C’è sempre un prima e un dopo: prima escludo intere categorie, poi – in un moto di benevolenza – decido di farle rientrare. Ma continuo a considerarle “altre” rispetto a me. E questo crea una dinamica sbilanciata: ci siamo noi, normali, e loro, i diversi.
Li includiamo sì, ma senza dare loro agency, senza lasciar loro la possibilità di decidere come, quando e in che forma vogliono essere inclusi.
Per esempio:
- Concediamo alle coppie LGBTQ+ le unioni civili, ma non il matrimonio.
- Montiamo la rampa d’accesso per le persone con disabilità, ma evitiamo di parlare della loro sessualità, come se fossero “angeli asessuati”.
Inclusione troppo spesso significa parlare di un gruppo… senza quel gruppo. Parlare “di loro” senza “loro”.
Le cose stanno lentamente cambiando, ma c’è ancora tantissima strada da fare. E siccome credo molto nel lavoro sulle parole, seguo il pensiero di Fabrizio: dobbiamo andare oltre l’inclusione. Per me, l’obiettivo è arrivare alla convivenza delle differenze. Non l’ho inventato io, né Fabrizio, che però mi ha ispirata sul tema, ma siamo fra quelli che la portano avanti. Cosa cambia?
Con la convivenza, riconosco che tutte le persone – con tutte le loro caratteristiche (Basaglia diceva: “Da vicino nessuno è normale”) – si siedono attorno allo stesso tavolo e decidono insieme. Non è più “io ti includo”, ma “noi costruiamo insieme”.
Una società di convivenza non si misura solo dall’assenza di discriminazione. Si misura dal fatto che tutte le persone – disabili, queer, razzializzate, chiunque – hanno accesso ai luoghi del potere.
Non basta più essere “accettati” o “tollerati”: bisogna essere partecipi, protagonisti. Che questo manchi si vede chiaramente osservando il fenomeno del “tubo che perde” (leaky pipeline). Succede un po’ ovunque: alla base della società, teoricamente, tutti sono inclusi – almeno sulla carta –, come dice anche la nostra Costituzione.
Ma poi, man mano che si sale nei livelli di potere, la diversity sparisce. E ai vertici troviamo salotti di potere omogenei: bianchi, eterosessuali, cisgender, normodotati e maschili. Io lo vedo all’università, ma se guardate la politica è la stessa storia. C’è stata qualche apertura, soprattutto per quanto riguarda la presenza femminile nei posti di potere, ma spesso si tratta di donne isolate. E, in tanti casi, si tratta di donne che si sono “virilizzate”, cioè che hanno assunto modi di fare molto maschili, distaccandosi anche esplicitamente dal femminismo, come se fosse qualcosa di negativo o incompatibile con il potere.
Quindi, tutto quello che dico sulla lingua ha due caratteristiche fondamentali:
- Andare oltre l’inclusione: perché l’inclusione è un primo passo, ma non basta.
- Tenere connessa parola e realtà: mai scollegare le parole dall’azione concreta.
A questo punto, riprendendo alle domande che mi avete mandato, arrivo alla questione:
È possibile avere un italiano più inclusivo?
Ecco, io preferisco parlare di linguaggio ampio piuttosto che di linguaggio inclusivo. Io mi occupo più spesso della questione del genere, ma sempre con una visione per quanto possibile intersezionale.
Il linguaggio ampio è una visione della lingua come di un sistema complesso, in continuo mutamento, capace di adattarsi ai bisogni della sua comunità di parlanti.
E la comunità dei parlanti comprende tutti e tutte: persone disabili, queer, razzializzate, migranti… non sono corpi estranei alla lingua, sono parte integrante. Quando in alcuni gruppi nascono nuove espressioni, quando si mettono in discussione vecchie formule linguistiche, questo non è un attacco dall’esterno, ma un movimento naturale, che nasce dal basso, dalle radici.
Questi tentativi di cambiamento linguistico non vanno sottovalutati. Ogni volta che si discute di lingua, in realtà, si sta parlando anche di poteri, di gerarchie, di cambiamento sociale. Lo diceva già Antonio Gramsci, non me lo sto inventando io: ogni battaglia sulla lingua nasconde una battaglia sulla società. Quindi, non è una semplice questione di grammatica o di estetica: dietro c’è un ripensamento profondo del modo in cui vogliamo vivere insieme.
E allora arriviamo a parlare di un punto fondamentale: l’italiano è una lingua binaria. Derivando dal latino – come tutte le lingue neolatine – l’italiano ha conservato solo due generi grammaticali: maschile e femminile. Il neutro latino è andato perso.
Se sfogliate tutto il vocabolario, non troverete nessun sostantivo marcato come neutro: c’è solo maschile e femminile. Alcune parole sono sia maschili sia femminili (come “analista”, “insegnante”), ma il sistema è binario.
Una lingua è sempre emanazione della società che la parla. Non è un sistema astratto: è dentro una storia, una cultura, una visione del mondo.
Nel suo bellissimo libro Queer. Storia culturale della comunità LGBT+ (Einaudi, 2021), Maya De Leo spiega bene che le nostre culture occidentali sono state costruite attorno all’idea dell’uomo maschio: “aner” in greco, “vir” in latino. Non homo nel senso di essere umano, ma proprio maschio. Tutta la struttura sociale era maschiocentrica: l’uomo al centro, e attorno a lui donne, bambini, persone razzializzate, chiunque fosse considerato “altro”.
E questo ha avuto effetti anche sulle lingue. Basti pensare che fino alla fine del ‘700 la scienza stessa considerava il corpo femminile come una variazione mal riuscita del corpo maschile! Ad esempio, l’utero era visto come dei testicoli “cresciuti male” all’interno del corpo. Il clitoride come un “pene abortito”.
Le donne erano considerate, a livello anatomico, solo delle versioni difettose degli uomini. Quando finalmente si è cominciato a studiare seriamente il corpo femminile, è partita anche l’idea moderna di dimorfismo sessuale: esistono maschi, esistono femmine, tutto il resto è patologia o deviazione. Questa visione binaria ha avuto riflessi enormi: nelle leggi, nella medicina, nell’arte… e ovviamente anche nella lingua.
Arriviamo allora al nodo: In italiano, quando parliamo di esseri umani, tendiamo ad associare il genere grammaticale al genere percepito: maschile per chi sembra maschio, femminile per chi sembra femmina. Ma attenzione: non lo facciamo sulla base di un dato biologico. Nessuno di noi controlla i cromosomi di chi incontra! Ci basiamo sull’apparenza, su come una persona si presenta.
Ad esempio: Drusilla Foer – che nella vita è Giorgio Gori – quando è “Drusilla”, si presenta come donna. E quindi la chiamiamo al femminile. Quando torna Giorgio Gori, lo chiamiamo al maschile. Usiamo la lingua basandoci sull’identità di genere manifestata, non sul dato biologico. Questo sistema, per molto tempo, ha funzionato. Ma ha anche avuto un effetto collaterale: ha costruito un binarismo rigidissimo.
Se non sei chiaramente maschio o chiaramente femmina, vieni messo nella casella della patologia. Non esiste una terza opzione “normale” nello schema tradizionale: o sei uomo, o sei donna, o sei “sbagliato”. Questo riguarda sia le persone intersessuali sia le persone transgender o non binarie. Ora, tutto questo non c’entra niente col neutro latino. Le persone non binarie, gender fluid, genderqueer, two spirits non sono “neutre”. Sono persone che esistono fuori dal binarismo di genere, ma non per questo devono essere considerate “senza genere” o “neutre”.
Il problema nasce quando dobbiamo rappresentare linguisticamente tutta questa varietà.
Se dico “Buonasera a tutti”, uso il maschile sovraesteso, come da tradizione. Ma così invisibilizzo tutta la diversità reale delle persone presenti. Perché il maschile sovraesteso non è neutro: è maschile. E il fatto che sia stato scelto come “standard” è il riflesso della centralità maschile nella storia, nella cultura, nell’arte, nella filosofia. È un meccanismo che si autoalimenta.
Basta pensare ai libri scolastici: io, a scuola, prima dell’università, non ho mai studiato una filosofa. Magari adesso ogni tanto compare Hannah Arendt o Judith Butler, ma per il resto il canone resta schiacciato sul maschile. Lo stesso vale per la letteratura, per l’arte, per la storia della scienza. Quindi è naturale che nella lingua il maschile sia dominante. È il riflesso di un mondo dove il maschio è stato per secoli il centro.
Ora: maggiore visibilità linguistica corrisponde a maggiore visibilità sociale. Ecco perché si è cominciato a dire “Buonasera a tutte e a tutti”. Per me è stato naturale, dopo aver scoperto l’esistenza di tutte le persone fuori dal binarismo, chiedermi se si potesse andare ancora oltre: non solo “tutte e tutti”, ma trovare modi di parlare che non cancellassero chi non si riconosce né nell’uno né nell’altro.
Ci sono varie soluzioni. Quella che io adotto più spesso è usare circonlocuzioni:
- “Buonasera a tutte le persone presenti”
- “Buonasera a chi è in sala”
Così evito il maschile sovraesteso senza dover ricorrere a forme troppo sperimentali che rischierebbero di creare barriere. Perché? Perché, come dico sempre, io voglio farmi capire.
Nei contesti più consapevoli – come al Cassero di Bologna o al Circolo Mario Mieli a Roma – si usano forme più sperimentali. Tipo: “Buonasera a tuttu” o “Buonasera a tuttasterisco”, così, pronunciando il simbolo dell’asterisco, appunto.
Ma perché la U? Perché in italiano tutte le vocali grammaticali sono occupate tranne la U. Gli spagnoli sono più fortunati: hanno la E libera, e possono dire “todes”, “amigues”, eccetera. Noi invece, se usiamo la U, rischiamo di sembrare campani (“tuttu”) o sardi (“tuttu”), e questo, attenzione, non è neutro: in Italia l’antimeridionalismo è ancora molto forte. Non è un caso se nella petizione contro l’uso dello schwa – quella su Change.org lanciata dal linguista Massimo Arcangeli – si legge la frase “parleremo tutti come dei meridionali”, come se fosse un problema.
Ora, sullo schwa (“ə”) non mi dilungo troppo. Se volete, trovate un mio TEDx su Youtube che spiega tutto in quindici minuti. Però vi dico questo: usare lo schwa (o l’asterisco *) crea problemi reali a chi usa tecnologie assistive, come i lettori vocali per ciechi o ipovedenti.
Anche chi ha dislessia o chi non ha l’italiano come lingua madre può trovarlo un ostacolo. Quindi lo schwa va bene come scelta simbolica, in contesti ristretti e consapevoli. Ma non è adatto alla comunicazione generale.
Nelle comunicazioni ufficiali delle scuole, ad esempio, la presenza dello schwa o dell’asterisco è ridicolarmente bassa (meno dell’1% dei documenti!). Eppure il ministro Valditara ha costruito una crociata contro lo schwa. È evidente che si sta usando questa questione per distrarre l’opinione pubblica da problemi ben più seri nella scuola.
Quindi, come rendere l’italiano più inclusivo? Senza estremismi.
Dove posso, cerco di ridurre l’uso del maschile sovraesteso, senza scivolare in formule sperimentali che rischiano di escludere proprio chi vorremmo includere. Perché c’è un dato importante: in Italia, circa il 33% della popolazione è in condizioni di analfabetismo o semi – analfabetismo di ritorno. Se usiamo una lingua troppo complessa o simbolica, rischiamo di tagliare fuori proprio le persone più fragili.
Su questo ho trovato conferme anche leggendo Franco “Bifo” Berardi e Brigitte Vasallo.
Entrambi parlano di semiocapitalismo: il rischio di trasformare i simboli (linguistici) in strumenti di esclusione sociale. Io non voglio diventare una semiocapitalista della lingua. Non voglio costruire una lingua inclusiva solo per chi ha gli strumenti culturali per capirla. Voglio costruire una lingua davvero accessibile, davvero condivisa.
Quindi sì, evito il maschile sovraesteso dove posso. Ma non spingo su forme che escluderebbero chi ha più bisogno di sentirsi parte. Più che darvi ricette definitive, vi lascio una prospettiva:
Considerate la varietà umana non come un problema, ma come una risorsa.
La diversità è una risorsa per l’umanità. Là dove c’è omogeneità – anche genetica –, c’è stagnazione e rischio. La diversità invece è vita.
Riusciremo a costruire una società davvero fondata sulla convivenza delle differenze?
Non lo so. Forse, come diceva Tommaso Moro, non si tratta di raggiungere l’utopia, ma di avere una direzione verso cui camminare.
Anche se non ci si arriva mai, vale la pena provarci. E così, alla fine dei salmi, le mie parole sono parole di speranza.
* Vera Gheno è sociolinguista e divulgatrice, con numerosi anni di insegnamento all’Università di Firenze e una lunga collaborazione con l’Accademia della Crusca. Ha firmato saggi diventati veri e propri strumenti per capire il linguaggio contemporaneo, come Potere alle parole, Femminili singolari e Tienilo acceso (con Bruno Mastroianni). “Nessunə è normale” (UTET, 2025) è la sua diciassettesima monografia. Conduce il podcast “Amare parole e, da anni, è una delle voci più chiare nel promuovere un linguaggio più consapevole, inclusivo e umano.
> Gli altri interventi tenuti all’incontro “PIETRE D’ANGOLO” (Firenze, 5 aprile 2025)