Lo Spirito soffia anche tra i colori del Pride
Testo di Robert Shine, pubblicato su New Ways Ministry (Stati Uniti) il 28 maggio 2023. Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata.
“Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si vede non è più speranza: come infatti si può sperare ciò che già si vede? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.” (Romani 8,24-25)
In questi giorni, mi porto dentro una certa inquietudine. Ho letto che la catena di negozi Target ha deciso di rimuovere dagli scaffali, o quantomeno di nascondere in fondo ai suoi negozi, i prodotti dedicati al Pride. Il motivo? Sui social, in particolare su TikTok, sono circolati video in cui alcune persone contrarie ai diritti LGBTQ+ – gruppi organizzati di attivisti conservatori e militanti anti-Pride – hanno preso di mira gli espositori dei prodotti arcobaleno: li hanno danneggiati e hanno minacciato verbalmente i dipendenti dei negozi e, in alcuni casi, hanno filmato le loro azioni per incitare altri a fare lo stesso. Una vera e propria campagna di intimidazione che ha spinto la direzione aziendale a fare un passo indietro.
Non ho mai creduto che il “capitalismo arcobaleno”, cioè le campagne commerciali che usano i simboli LGBTQ+ solo per vendere, avrebbe portato alla nostra reale liberazione. Perciò provo sentimenti contrastanti di fronte a questa storia. Ma non riesco a restare indifferente. Perché, alla fine, quel che mi turba davvero va ben oltre i negozi o di qualunque altra multinazionale. Mi preoccupa il clima ostile che si sta diffondendo nel Paese, una minaccia che si fa ogni giorno più concreta e non riguarda solo i nostri diritti, ma le nostre vite.
Mi preoccupa profondamente il modo in cui, oggi, chi appartiene alla comunità LGBTQ+ negli Stati Uniti si trova ad affrontare una minaccia crescente. E non è solo una questione di leggi o di diritti negati: è una questione di sopravvivenza, soprattutto per le persone trans o non binarie, e in modo ancora più drammatico per chi è nero o di colore. La violenza esplicita è all’ordine del giorno, purtroppo.
Ma c’è anche un altro tipo di violenza, più silenziosa e strisciante, che forse fa ancora più male: quella “meno evidente e meno visibile… una violenza al rallentatore fatta di discriminazioni continue”, come la definivano già nel 1994 i vescovi cattolici statunitensi in una loro lettera pastorale.
Tutte le conquiste ottenute in questi anni, frutto di fatica e coraggio, oggi sembrano sgretolarsi sotto i nostri occhi. Al loro posto stanno arrivando nuove leggi che vietano le cure di affermazione di genere per le persone trans, censurano i programmi scolastici che parlano di diversità, mettono al bando spettacoli drag e colpiscono ogni forma di espressione queer nello spazio pubblico.
E allora mi chiedo: cosa vuol dire sperare, in tempi come questi? Cosa significa davvero la speranza per noi, per le persone LGBTQ+, per chi ci vuole bene, mentre tutto sembra franare?
Per poter guardare avanti con speranza, credo che dobbiamo imparare prima a guardare indietro. Penso a come, per secoli, essere omosessuali o trans significava vivere nel silenzio, nella paura, nell’illegalità. In quel tempo buio, tante persone LGBTQ+ erano costrette a nascondersi, proprio come i discepoli di Gesù dopo la sua risurrezione – chiusi in una stanza, bloccati dalla paura, come in un moderno cenacolo che noi oggi chiamiamo “armadio”.
Ma poi i discepoli uscirono da quel nascondiglio e iniziarono a raccontare la Buona Notizia. E anche noi abbiamo avuto i nostri profeti: penso a Frank Kameny, uno dei primi attivisti LGBTQ+ americani, che ebbe il coraggio di proclamare al mondo: “Gay is Good” (Essere gay è una cosa buona). Quei movimenti, dapprima invisibili, iniziarono a prendere voce, a mostrarsi, a crescere.
E poi accadde qualcosa di dirompente: lo Spirito Santo irrompe sulla scen nella Pentecoste, certo, ma anche nei Pride. A Gerusalemme i discepoli parlavano le lingue. A Stonewall, gli amici e le amiche di Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera lanciavano mattoni. Due momenti lontani nella storia, ma uniti da un filo comune: un’energia divina che esplode contro l’oppressione, che chiama a resistere, che alimenta il desiderio di un mondo più giusto.
Oggi, di nuovo, ci ritroviamo in un tempo confuso e fragile. Solo pochi anni fa sembrava che l’uguaglianza fosse finalmente vicina. Adesso, quell’orizzonte ci sembra più distante, sfocato, quasi irraggiungibile.
Ma san Paolo ci ricorda che non si può sperare in ciò che si vede. La speranza, quella vera, è fede in ciò che ancora non si è manifestato. E io so – lo sappiamo – come sono andate le cose dopo Gerusalemme e dopo Stonewall: il cristianesimo si è diffuso, il movimento LGBTQ+ ha fatto germogliare nuovi rami, nuove voci. Ma chi ha iniziato quel cammino non poteva sapere cosa sarebbe accaduto. Non vedeva ancora i frutti. Ha continuato a camminare perché credeva.
Ecco cosa intendo quando dico che la speranza è una scelta radicale. Non è una sensazione passeggera o un pensiero positivo. Sperare è scegliere, ogni giorno, di credere che la liberazione promessa da Dio è reale, anche quando tutto ci dice il contrario. Sperare è unirsi, spiritualmente, ai discepoli di Gesù e ai ribelli di Stonewall, e dire con coraggio: “Sì, io ci credo. Sì, io mi fido dello Spirito della giustizia che si muove tra noi.”
Una volta una suora cattolica mi disse: “Io ho speranza, ma non sono ottimista.” E devo ammetterlo: anch’io, in questi tempi, faccio fatica a essere ottimista. Ma in questo Pentecoste, in questo Pride, scelgo di nuovo la speranza. Seguo le orme di chi ha osato prima di me, quelle orme lasciate nei secoli da credenti e da attivisti. E per non sentirmi solo, faccio mia la loro stessa invocazione, antica e potente:
“Vieni, Spirito Santo, vieni!”
* Robert Shine è direttore editoriale del blog Bondings 2.0, progetto di riflessione e informazione LGBTQ+ cattolica promosso da New Ways Ministry.
Testo originale: Speaking in Tongues and Throwing Bricks, the Holy Spirit Is Alive at Pentecost—and at Pride