L’omosessualità e la mia esperienza di pastore nella chiesa metodista
Testimonianza* del reverendo metodista Kathlyn James della First United Methodist Church di Seattle (USA), liberamente tradotta da Francesco S.
“In qualità di pastora so bene che l’omosessualità è un argomento delicato, su cui noi cristiani abbiamo opinioni diverse. So anche che si tratta di un problema reale tra di noi e non è soltanto teorico.
(…) Quindi fatemi mettere da parte la mia pila di libri ed articoli sul tema e lasciatemi semplicemente parlare col cuore in mano delle esperienza di cui ho fatto esperienza come pastore nella mia chiesa”. Questa è la sua testimonianza.
Lo scorso agosto abbiamo avuto in chiesa una domenica speciale, chiamata delle “Questioni scottanti”, in cui ho risposto in maniera estemporanea a domande formulate dall’assemblea.
Quella volta ho anche promesso di tenere entro l’anno una serie di discorsi che avrebbero toccato in maniera specifica le tre questioni di maggior rilievo, ovvero più richieste in quella giornata.
Devo ammetterlo, non avrei potuto prevedere proprio le tre questioni più importanti che si sarebbero presentate nel mio cammino!!! Esse erano:
1. L’omosessualità è un peccato?,
2. Esiste l’inferno?
3. Come possiamo perdonare?
Questa mattina comincio ad esaminare la prima di queste, cioè: l’omosessualità è un peccato?
Per oggi ho cercato tutto il materiale che potevo trovare su questo argomento. Ho raccolto degli studi ufficiali di alcuni gruppi confessionali sull’omosessualità e la Chiesa – non solo la guida degli della Chiesa metodista unita, ma anche documenti della Chiesa luterana, presbiteriana e della Chiesa Unita di Cristo. Ho anche consultato un mucchio di libri con titoli tipo “Vivere nel peccato?”, di un vescovo episcopale, o “Il mio vicino di casa è omosessuale?”, di due evangelici.
Alla fine avevo sul mio tavolo una pila di libri e di articoli alta circa trenta centimetri. Ho passato successivamente diversi giorni a leggere, prendere appunti e a preparare una serie di argomentazioni per il discorso di stamattina.
Ma verso martedì di questa settimana mi sono fermata a lungo e mi sono posta una domanda: qual era il mio obiettivo? Qual è il mio obiettivo nell’affrontare questa tematica dal pulpito stamattina?
In qualità di vostra pastora, so bene che l’omosessualità è un argomento delicato per voi. È una tematica su cui noi cristiani abbiamo opinioni diverse e sensazioni spesso molto complesse. So anche che si tratta di un problema reale tra di noi e non è soltanto teorico. Ecco perché l’avete sollevato.
Ci sono genitori seduti qui stamattina che si stanno chiedendo perché il loro figlio sia gay, se ciò significhi che hanno sbagliato qualcosa e se qualcun altro si sia mai imbattuto in questo problema. Ci sono gay e lesbiche cristiani che sono membri attivi della Chiesa, ma che vivono la loro omosessualità di nascosto perché non vogliono perdere il loro lavoro, la loro casa o i loro amici ed il rispetto degli altri.
Ci sono adolescenti presenti tra noi hanno pensato al suicidio perché sospettano di essere gay. Ognuno di noi qui presenti ha un proprio bagaglio di conoscenze, una propria idea ed esperienza personale con questo problema. È ora che cominciamo a parlarne.
Il mio obiettivo, questa mattina è di aprire una conversazione. E questo è il pensiero che mi è venuto in mente martedì: qual è il modo migliore per cominciare una conversazione? Non è presentando una serie logica di argomentazioni. Questo è il modo in cui si presenta un dibattito, non un dialogo! Il modo migliore per cominciare una conversazione, in cui si desidera che gli altri si sentano liberi di esprimere chiaramente le loro opinioni e che non c’è l’intenzione di metterli a tacere, è semplicemente parlare col cuore in mano, con le vostre esperienze personali.
Quindi fatemi mettere da parte, questa mattina, la mia pila di libri ed articoli e lasciatemi condividere con voi almeno una parte di questo mio viaggio in questa tematica. Nei mesi a seguire, a partire dal “dialogo” che avremo oggi direttamente in chiesa, vi invito a fare lo stesso.
Io sono cresciuta in un ambiente di valori tradizionali. La mia famiglia apparteneva ad una chiesa congregazionalista in cui, settimana dopo settimana, assimilavo una teologia fondamentalmente in linea di massima cristiana che enfatizzava l’amore di Dio per tutte le persone; mi veniva insegnato che la cosa più importante nella vita è amare Dio, amare il prossimo come noi stessi.
In quell’ambiente, strano a dirsi, non ricordo che sia mai stata detta una parola sull’omosessualità. Non so nemmeno quando l’abbia sentita per la prima volta – probabilmente non prima delle scuole superiori. Quando l’ho sentita, non aveva una forte carica di negatività, – e in questo, ho imparato a capire, la mia esperienza era molto diversa da quella di molte persone.
Non sono cresciuta sentendomi dire che l’omosessualità fosse una cosa scandalosa e squallida, non ho mai avute brutte esperienze come essere molestati da una persona del mio stesso sesso. Soltanto da adulta capisco sul serio che impatto tremendo queste prime esperienze hanno nel formare le opinioni della gente per proteggerle dall’omosessualità.
In realtà non avevo mai incontrato, per quanto ne sapessi, una persona omosessuale, almeno fino a vent’anni. Questa combinazione di influenze fece sì che il mio atteggiamento fosse molto del tipo “vivi e lascia vivere”. Non capivo come potesse ferire qualcuno o come potesse minacciarmi il vedere due persone dello stesso sesso che volevano amarsi reciprocamente e vivere assieme. Dove stava questo grosso problema?
In realtà solo nel seminario, quando avevo ormai trenta anni, la questione assunse per me un volto umano. Il suo nome era Sally. Io ero una studentessa pendolare della Scuola di Teologia di Vancouver, con un lavoro, un marito e tre figli a Seattle.
Andavo a Vancouver il lunedì e tornavo a casa il mercoledì, quindi avevo bisogno di un posto dove stare due notti a settimana. Sally aveva un monolocale nel campus che era disposta a condividere in cambio di un affitto diviso proporzionalmente. Nel corso dei tre anni successivi io e Sally diventammo presto amiche.
Non avevo mai conosciuto nessuno come Sally. Innanzitutto era un persona molto più disciplinata di me nella sua vita spirituale. Si alzava ogni mattina alle 5, che pensavo fosse un’ora impossibile, e lasciava l’appartamento per una passeggiata a piedi o in bici, durante la quale pregava.
Comprava tutti i suoi vestiti a Goodwill e aveva nell’armadio solo cinque cambi e due paia di scarpe.
Trascorreva molti giorni della settimana a fare volontariato in una mensa gratuita per poveri in centro. Teneva un libro di preghiere giornaliere. Fondamentalmente mi ha fatto vergognare di me. Ma la cosa più affascinante di Sally era che amava Dio.
Rideva tranquillamente, amava la vita, amava la gente, era una persona divertente e scherzosa. Una sera, mentre stavamo andando a dormire – ognuna in un letto singolo disposto contro la parete, con la testa verso l’angolo ed i piedi rivolti verso quelli dell’altra – mi ha chiesto se volessi pregare. Non avevo mai pregato prima di allora con un’altra persona – almeno non in quel modo, aprendo la nostra vita interiore davanti a Dio, alla presenza dell’una e dell’altra – e all’inizio ero esitante e timida.
Col tempo divenne un’abitudine pregare assieme e, proprio durante quegli anni di preghiera, in cui si era il più onesti possibile con se stessi alla presenza di Dio, Sally fece coming out dicendo di essere gay.
Non fu per me un problema che Sally stesse scoprendo ciò e – devo anche aggiungere -, come la maggior parte delle persone, Sally scoprì che il suo orientamento sessuale non era qualcosa che aveva deciso.
Secondo voi, non è vero che l’orientamento sessuale sembra proprio essere qualcosa di già “dato”? Non è infatti come se Sally si fosse svegliata una mattina e avesse pensato: “Poiché tutte le cose sono uguali, penso che mi piacerebbe essere membro di una minoranza disprezzata”. Fu un processo di scoperta e di accettazione della verità sulla sua identità di essere umano. Ma presto scoprì che scoperta traumatica sarebbe per lei.
Sally fece coming out innanzitutto davanti a Dio, poi alla sua famiglia, infine nella sua chiesa e al seminario. Io l’ho accompagnata lungo quel processo. Quando la Chiesa presbiteriana la bandì dal processo di ordinazione, fui molto provata.
Come potevano dire che Sally non fosse qualificata a diventare un pastora? Era la studentessa migliore della classe ed una cristiana migliore di quanto io pensassi mai di essere. Sapevo che era molto preparata e richiamai l’attenzione del ministero pastorale.
Successivamente Sally fu licenziata anche dal suo lavoro come Direttore del Gruppo Giovani in chiesa poiché qualcuno aveva inviato al pastora una lettera dicendo che era gay. Tutto quello che potevo pensare a quel tempo era: “Tutto ciò è assurdo e cattivo. Sally è eccezionale con quei bambini. Perché la gente presume che lei non sia una persona adatta per lavorare con loro? Perché pensano che un uomo o una donna eterosessuale sarebbe stati più adatte?”
Tutto mi è apparso definitivamente chiaro una mattina, mentre ero in cucina. Versavo un bicchiere di succo d’arancia e ho sentito Sally piangere a letto. Lo faceva spesso in quei giorni.
Alla fine sono andata da lei, mi sono seduta sulla punta del letto ed ho cominciato ad accarezzarle i capelli. E le ho detto: “Sally, non so cosa significhi essere gay, ma è una parte di te e, se Dio ti ha creata in questo modo, dico che sono contenta che tu sia chi sei realmente, che ti amo per quella che sei e che non vorrei affatto che tu fossi diversa”.
Non appena queste parole uscirono fuori dalla mia bocca, capii: avevo preso una posizione. Sapevo da che parte stare in merito a questa tematica. Sally non meritava di essere disprezzata e rifiutata, era la Chiesa ad avere torto.
Dopo il seminario sono stata incaricata di fare servizio presso la Chiesa Metodista unita di Wallingford a Seattle, che aveva deciso qualche anno prima di diventare una congregazione riconciliante, cioè una congregazione che afferma pubblicamente di essere aperta e sostenitrice di tutte le persone, a prescindere dall’orientamento sessuale.
Da quel momento in poi, la mia curva di apprendimento crebbe notevolmente!
Una delle mie prime visite pastorali è stata ad un ragazzo che si era appena tagliato i polsi con la lametta di un rasoio! Mi spiegava che era cristiano e che non poteva negarlo, che era anche gay e che non poteva neanche negare ciò, anche se ci aveva provato.
Gli era stato infatti detto che non poteva essere entrambe le cose. Suo padre lo aveva chiamato “spazzatura umana”. Non era degno di vivere. Tutto quello che ho potuto fare, come reazione, è stato inginocchiarmi e chiedere perdono per la sua Chiesa, per aver detto ad un giovane di essere escluso dall’amore di Dio.
Nei cinque anni che seguirono, ho avuto molte esperienze di questo tipo. Avevo uomini malati di AIDS che mi guardavano dal basso verso l’alto con gli occhi incavati e mi chiedevano: “Lei pensa che io sia un abominio?”.
Mi sono seduta accanto a ragazzi che chiamavano i genitori mentre morivano, ma i loro genitori non sono mai venuti. Queste esperienze hanno avuto un impatto profondo su di me. Ho continuato ad andare a ritroso con la mente, più volte, sino alla mia prima formazione cristiana, al messaggio che Dio ama tutti e che Gesù dice di amare il prossimo come noi stessi. Non diceva infatti: “Ama il tuo prossimo, a meno che non quella persona sia omosessuale”. Non ha mai detto nessuna parola sull’omosessualità.
Gesù ha trascorso la sua vita andando dai poveri, dagli emarginati, dalle persone che erano chiamate impure dalla loro società, dimostrando che l’amore di Dio includeva anche loro. Li trattava con compassione. Le sue parole più dure sono state per i Farisei, che credevano di essere giusti agli occhi di Dio e che gli altri non lo fossero, che pensavano che i giudizi e le opinioni di Dio fossero identiche alle loro.
Ciò mi spinge alla questione su cosa abbia da dire la Bibbia sull’omosessualità. Questa mattina non c’è tempo di trattare l’argomento in profondità – avremo molto più tempo per questo dopo, in discussioni e studi biblici ancora in corso, ma lasciatemi dire un paio di cose da dire qui.
La parola “omosessuale” non appare da nessuna parte nella Bibbia – questa parola non fu coniata in nessuna lingua fino all’ultimo decennio dell’800, quando per la prima volta si sviluppò la consapevolezza che esistevano persone con un orientamento innato verso altre persone dello stesso sesso.
In tutta la Bibbia ci sono solo sette brevi passi che trattano di comportamenti omosessuali. Il primo è la storia di Sodoma e Gomorra, su cui ho fatto una predica lo scorso autunno, che è in realtà irrilevante ai fini della questione. Il tentato stupro di gruppo non dice nulla al riguardo, cioè se un amore puro tra due persone adulte consenzienti dello stesso sesso sia legittimo o no.
Non dice nulla al riguardo neanche il passo del Deuteronomio, capitolo 23, che fa riferimento ai riti di fertilità dei Cananei che si erano infiltrati nel culto giudaico. I passi da I Corinzi e I Timoteo fanno riferimento alla prostituzione maschile. I due passi spesso citati che proibiscono gli atteggiamenti omosessuali si trovano nel libro del Levitico.
Il Levitico stabilisce anche che qualsiasi uomo che tocchi una donna durante il suo ciclo mestruale è da lapidare a morte, che gli adulteri devono essere giustiziati, che il matrimonio interrazziale è peccaminoso, che non si devono abbinare due tipi di abbigliamento e che certi alimenti non devono essere mai mangiati.
Io non conosco fedeli, per quanto fondamentalisti, che credono che i cristiani debbano obbedire a tutte le leggi del Levitico. Invece siamo spinti a fare domande più profonde su come interpretare correttamente le Scritture, come separare la Parola di Dio dalle norme ed i pregiudizi culturali – cioè come separare il messaggio dall’involucro in ci si trova.
L’ultimo passo biblico che tratta il comportamento omosessuale si trova nella lettera di San Paolo ai Romani, in cui l’apostolo condanna inequivocabilmente l’omosessualità. Il retroscena culturale per la sua interpretazione era la pratica comune a Roma, tra gli uomini adulti, di tenere giovani ragazzi per sfruttarli sessualmente, pratica che aveva ragione a condannare.
Ma anche se non fosse questo, anche se Paolo conoscesse tutte le forme di omosessualità e le condannasse, perfino la più amabile, che cosa cambierebbe? Paolo diceva anche alla donne di non insegnare, di non tagliarsi i capelli, di non parlare in chiesa. Seguiamo i suoi insegnamenti? Diceva agli schiavi di obbedire ai loro padroni non una volta sola, ma cinque volte. Oggi siamo pronti a dire che la schiavitù è volontà di Dio, come affermavano gli schiavisti del Sud 150 anni fa?
Il fatto è questo: io non sono una discepola di Paolo. Sono un’ammiratrice di Paolo, ma sono una discepola di Gesù Cristo. Paolo stesso dice che non dovremmo seguire lui, ma soltanto Cristo. Quindi ripeto, ancora una volta guardo alla vita e all’insegnamento di Gesù come il centro della mia fede.
Sotto questa luce tutti gli altri insegnamenti biblici devono essere criticati. Ci sono sette passi nella Bibbia sull’omosessualità, ciascuno dei quali è oggi discutibile per noi nel loro significato. Ci sono migliaia di riferimenti nella Bibbia che ci chiamano, come Gesù comanda, ad amare il nostro prossimo, ad operare per la pace e la riconciliazione tra le persone e lasciare il giudizio a Dio.
Quando sono stata pastora a Wallingford, ho fondato delle scuole bibliche ed intellettuali sulla base della mia esperienza di effettiva di conoscenza di Sally. In quegli anni sono arrivata anche ad apprezzare una comunità in cui sia i gay che gli etero potevano pregare assieme, collaborare nella pastorale, cantare nel coro – semplicemente essere reciprocamente umani, cercando di crescere nella capacità di amare Dio ed il prossimo senza paura.
Di conseguenza, quando mi si chiede: “L’omosessualità è un peccato”, la mia risposta oggi è: “No”. Potrei avere torto e chiedo perdono a Dio per questo, ma non credo che l’orientamento sessuale abbia a che fare con la moralità, nulla di più che essere biondi o alti o mancini.
Gli omosessuali così come gli eterosessuali possono essere coinvolti nel peccato sessuale, inclusi la promiscuità, l’infedeltà e l’abuso. E gli omosessuali così come gli eterosessuali possono amarsi l’un l’altro con fedeltà, tenerezza ed integrità. Si possono applicare le stesse norme di comportamento morale ai cristiani, sia etero che gay. Ecco cosa mi ha portata a credere la mia esperienza di vita da pastora.
Quando una coppia omosessuale viene ad un appuntamento con me nel mio ufficio e dopo mi chiede: “Saremo accettati in questa chiesa?”, posso rispondere: “Vi accetto”, ma posso parlare solo per me. Cosa devo dire in favore di tutta la nostra comunità?
Devo dire: “Si, sarete accettati qui purché non siate aperti su chi siete e chi amate?”. Devo dire: “Sì, sarete accettati, ma non potete ricoprire nessun ruolo di guida?”. Devo dire: “Sì, sarete accettati qui, ma qualsiasi cosa facciate, non tenetevi per mano in chiesa. Solo le coppie eterosessuali possono farlo?”. “No. O semplicemente “Sì”.
L’unico modo con cui arrivare al consenso su come si deve rispondere a questa domanda è prendere tempo, durante il prossimo anno, di esaminare noi stessi, studiare la Bibbia, pensare, leggere, pregare, ascoltare e condividere le nostre diverse esperienze di vita gli uni con gli altri, chiedendoci insieme a cosa Dio sta chiamando questa comunità a realizzare e a essere. Diamo inizio a questa discussione.
* Discorso pronunciato dal reverendo Kathlyn James nella chiesa metodista Unita di Lake Washington nel 1997.
Testo originale
Is Homosexuality a Sin? by Rev. Dr. Kathlyn James