Alla scoperta dell’omosessualità nella Bibbia e nell’antico Vicino Oriente
Testo di Alessandra del gruppo Varco-Refo di Milano
Roemer e Bonjour, autori di “L’omosessualità nella Bibbia e nell’antico Vicino Oriente” (Claudiana, 2007, 144 pagine) prendono in esame i testi e le tradizioni dell’area mesopotamica, egiziana e palestinese a partire dal IV millennio a.C., soffermandosi su com’è vissuta la sessualità, in generale e l’omosessualità, in particolare.
In Mesopotamia
I sumeri e gli accadi, panteisti e politeisti, riconoscono i principii della natura negli dei, uomini dai poteri e dalle capacità amplificate. La dea Ishtar, legata all’arte della guerra e a quella dell’amore, simbolo di fecondità e di piacere, incarna tutte le sfaccettature della sessualità, tranne la maternità, associata invece alla dea madre.
Il suo culto prevede la prostituzione sacra, sia femminile che maschile (i cosiddetti “assinnu” o “cani” perché fedeli al proprio padrone).
Le pratiche sessuali non sono regolate da giudizi morali, ma da ruoli sociali: i prostituti e le prostitute di Ishtar sono integrati nella società, ma ai gradini più bassi e assumono un ruolo sessuale passivo. Chi ha rapporti con loro appartiene invece a una classe sociale più elevata ed è previsto che abbia un ruolo attivo.
Esistono preghiere per favorire l’amore, sia omosessuale che eterosessuale, ma non si ritrovano riferimenti espliciti a pratiche omosessuali femminili, oltre a quelle della multiforme dea Ishtar.
Le coeve leggi Ittite condannano lo stupro verso un altro uomo e l’incesto: anche se frammentarie, sembrano più orientate alla conservazione dello status sociale, piuttosto che prescrittive di comportamenti sessuali. Si condanna infatti l’uomo libero che si sottrae ai doveri coniugali per sottomettersi a un altro uomo, mentre si accetta senza problemi che abbia rapporti con un prostituto, senza compromettere il proprio ruolo sociale.
Qui nasce l’epopea di Gilgamesh, che gli autori affrontani in seguito, in parallelo alla vicenda biblica di Davide e Gionatan.
In Egitto
La sessualità fa parte della ricerca dell’equilibrio e il mantenimento della forza vitale all’interno dell’intelligenza ordinatrice, presieduta dalla dea Maat. Esiste una dea dell’amore, Hathor, ma è rapprensentata come simbolo della fecondità e non del piacere, spesso raffigurata insieme a simboli fallici o al partner maschile Bes: manca una figura equivalente ad Ishtar, dalla sessualità e dal ruolo eclettici.
Intorno al 2000 a. C. si tramanda il mito della relazione sessuale tra Horus e Seth, forse connotata da un tentativo di stupro da parte di quest’ultimo, forse un gesto di sopraffazione, più che d’affetto o di piacere. L’atto, sventato da Horus, che riesce a sottrarvisi, viene comunque perpetrato nella sostanza con l’intervento della madre Iside, la quale serve il seme di Seth nel pasto di Horus, che ne viene inseminato. Ma qui, appunto, si tratta di lotta per la primogenitura e non di sesso, né d’amore.
Il “Libro dei Morti”, diffuso nelle tombe dei cittadini più illustri, esprime preoccupazione per una donna che sogni di avere rapporti con un’altra donna, insieme ad altre premonizioni bizzarre ai nostri occhi, come quella che il sogno di avere rapporti con un ibis indichi fortuna, mentre con altri tipi di uccelli indichi sfortuna.
Per l’uomo, le testimonianze sono contraddittorie: da un lato, il Libro dei Morti prevede tra le confessioni negative, cioè gli atti che si dichiara di non aver commesso per superare le prove dell’aldilà, quella di “non essere stato pederasta” insieme ad altre azioni considerate malvage, dall’altro, si trovano iscrizioni su una tomba del XXIV secolo a.C. di due alti funzionari con chiari riferimenti al loro legame affettivo e alla loro relazione intima e, su un registro in cui si parla del coevo faraone Pepi II, della relazione di costui con il suo generale Sisene.
Riepilogando: l’omosessualità aveva probabilmente uno spazio privato nell’antico Egitto, in quanto seguire i principi dettati dall’intelligenza ordinatrice della dea Maat non poteva prescindere, per un uomo, dal prendere moglie e avere figli. Nondimeno, le relazioni tra uomini si affiancavano a quelle ufficiali, talvolta eguagliandole in importanza affettiva, anche senza un riconoscimento sociale.
Nella BIBBIA
La premessa è che gli autori biblici affrontano raramente la questione dei rapporti omosessuali e mai per se stessa, sia nella Genesi che nel Levitico.
1. Levitico
L’omosessualità è in alcuni passi del Levitico condannata insieme all’incesto e ad altre pratiche riguardanti la sfera sessuale; le stesse pratiche sono tuttavia altrove accettate, come nel racconto di Lot e le sue figlie o in quello di Giacobbe che sposa due sorelle. Non si menziona invece la masturbazione, né l’omosessualità femminile
Un passo esaminato parla di Cam che “vede la nudità di suo padre”, affermazione interpretabile letteralmente (Cam vede il padre nudo) o per traslato, cioè che Cam abbia rapporti con suo padre o sua madre.
Secondo gli autori, l’interpretazione più corretta sembra comunque il riferimento al pudore di un figlio nei confronti del padre e non ad eventuali atti omosessuali e/o incestuosi.
Nel Deuteronomio, si dichiara che non ci sarebbero stati uomini o donne dediti alla prostituzione tra i figli d’Israele e che tali atti sono disprezzati da Dio: il riferimento sembra però all’abolizione, nel culto di YHVH, della prostituzione sacra praticata dagli Assiri e non a pratiche omosessuali.
Ma l’episodio più importante è riportato nel Levitico 18 e 20, in cui è espressamente indicata la proibizione di rapporti tra due uomini come “cosa abominevole”, concetto espresso anche nel successivo “Codice di Santità” rabbinico.
Il verbo tradotto con “avere rapporti” è l’equivalente di “usare” e una traduzione più appropriata sarebbe: “non userai un uomo come usi una donna, è cosa abominevole”. L’espressione cambia completamente significato infatti se si può “usare” la donna per scopi di piacere perchè “inferiore” all’uomo, si commette abominio a mettere un uomo sullo stesso piano.
Parlando genericamente di sessualità nella Bibbia, gli autori evidenziano che il “celibato” di YHVH è peculiare degli esegeti moderni: iscrizioni tombali dell’VIII sec. a. C. citano YHVH e la sua sposa Ashera. Successivamente, a seguito della divisione del regno giudaico e della schiavitù babilonese, è sorta l’esigenza di unificare il credo ebraico in una fede monoteistica, sia per differenziarsi dal politeismo altrui, sia per dare un senso di unità al popolo disperso.
Si è diffusa quindi la fede in un’unica divinità benigna, trascendente e asessuata, di modo da non associarla a familiari altrettanto divini, contrapposta a una figura maligna antagonista, esattamente come era accaduto in Egitto con le figure di Horus e Seth (del cui nome, Satana è una variante linguistica, n.d.r.).
2. Genesi
Il racconto di Sodoma e Gomorra è quello principalmente citato dalla componente cristiana che si schiera contro l’omosessualità. La narrazione tratta la nota vicenda dei due angeli che giungono in città con la prospettiva di trascorrere la notte all’aperto. Lot li ospita a casa propria con ogni cortesia, ma, la notte alcuni cittadini bussano alla porta della casa padronale, chiedendo di “conoscere” gli ospiti. Lot si premura di proteggere gli angeli e propone agli avventori le proprie figlie “che non hanno conosciuto uomo”.
Seguono litigi ed escalation di violenza, che terminano con la fuga di Lot con famiglia a seguito e distruzione della città da parte di YHVH. La moglie di Lot muore nel tragitto e lui provvede a “conoscere” pesonalmente le figlie per dare continuità alla stirpe.
Due i particolari emergenti: non viene condannato l’incesto, altrove considerato abominio (Levitico) e la violenza dei concittadini di Lot si evince non solo dall’intenzione di abusare di uomini non consenzienti, ma anche dalla furia cieca con cui difendono l’arroganza del controllo a scapito di uno dei doveri più sacri, quello dell’ospitalità.
In quanto all’abuso sessuale verso le donne, gli autori citano un episodio di Giudici, 19, meno conosciuto, ma dalle dinamiche analoghe: un sacerdote levita arriva con la sua concubina nella città di Ghibea e viene ospitato da un abitante del luogo.
Di notte, alcuni avventori chiedono al padrone di casa di “conoscerlo”, ma lui tutela l’ospite, dando loro “in pasto” la concubina di quest’ultimo e proponendo la propria figlia vergine in eventuale aggiunta.
Gli avventori abusano della donna del levita fino a ucciderla e il levita, al mattino, se ne va portando via il cadavere.
L’analogia tra i racconti è sorprendente, eppure non si fa mai riferimento al racconto di Ghibea come a un esempio di prescrizione delle pratiche omosessuali, bensì a un’esplicita condanna alla mancanza di ospitalità verso il prossimo.
3. Davide e Gionatan (I Libro di Samuele)
La storia dei protagonisti si colloca in quella della legittimazione del regno d’Israele all’interno dei complessi Libri di Samuele, i cui diversi frammenti fanno tuttora discutere gli esegeti.
Samuele consacra inizialmennte Saul come primo re d’Israele, ma quest’ultimo si ritrova successivamente respinto da YHVH stesso in favore di Davide: fin da subito si avvertono lotte dinastiche, che si dipaneranno, tra cronaca e leggenda, in tentativi di inganni, violenze e una finale separazione.
La relazione di Davide e Gionatan è descritta nel “Racconto dell’ascesa di Davide”: i due giovani fanno conoscenza al termine di una battaglia e, fin da subito, s’instaura una relazione forte e intima.
Gionatan si spoglia dei suoi abiti, segno del suo rango, e li dona a Davide, segno di riconoscimento in quest’ultimo del vero re, cosa quantomeno insolita.
Ma l’intesa tra i due travalica la stima e la devozione reciproca ed è connotata da verbi indicanti sia l’amore in senso lato, sia l’attaccamento e il desiderio. Saul, che inizialmente accoglie Davide come un figlio, acquisisce poi la consapevolezza che il giovane sconosciuto è destinato ad occupare il trono d’Israele e confida a Gionatan l’intenzione di ucciderlo.
Scoperto poi il forte legame del proprio figlio con Davide, cede agli insulti con epiteti che hanno connotazioni sessuali, ma anche politiche: la principale, “figlio d’Isai”, indica la presunta fedeltà dinastica di Gionatan a Davide invece che al proprio padre.
Induce ulteriormente a pensare a una relazione d’amore che, spiritualmente e fisicamente, travalica l’amicizia anche la cosiddetta “Elegia di Davide”: quest’ultimo, apprendendo la morte di Gionatan e Saul durante una battaglia, dichiara, tra le altre cose: “(…) l’amore tuo per me era più meraviglioso dell’amore delle donne (…) e chiede agli altri di piangere Saul per consentirgli di dedicare il proprio dolore unicamente a Davide.
Davide e Gionatan non erano tuttavia una coppia omosessuale come la intenderemmo ai nostri giorni: erano entrambi sposati, secondo i dettami delle leggi, ma vivevano un legame che non andava in contrasto con i loro matrimoni, anzi, completava la loro affettività, in modo simile ad altri due personaggi dell’antica letteratura mediorientale: Gilgamesh ed Enkidu.
GILGAMESH ED ENKIDU (Epopea di Gilgamesh)
I contenuti originali dell’epopea (III millennio a.C.), inizialmente consistevano in racconti frammentari in lingua babilonese, tradotti in sumero e raccolti nella biblioteca di Ninive circa un millennio dopo.
Gilgamesh, re di Uruk (nell’attuale Irak) intorno al XXVII secolo a. C., è connotato come un semidio e la sua biografia è costellata da aspetti ed eventi sovrannaturali.
Re tirannico, alto più della media, bello e prestante, dalla sete di gloria e dagli appetiti sessuali insaziabili nei confronti di uomini e donne: questo è il ritratto di Gilgamesh, la cui illimitata energia rischia di distruggere i suoi umani sudditi.
Gli dei accolgono i loro lamenti, donando a Gilgamesh una degna controparte: Enkidu. La dea Aruru lo crea partendo da un grumo di creta piantato in una foresta; una volta cresciuto, viene iniziato alla cultura e alla sessualità da una prostituta e poi introdotto ad Uruk.
Gilgamesh è avvisato dell’imminente incontro con Enkidu dal sogno premonitore di giacere a fianco di un’ascia bipenne, interpretato dalle parole della madre: “(…) Gilgamesh, l’ascia che tu hai visto è l’uomo che tu hai amato, come se fosse una donna ed hai accarezzato dolcemente (…). Perchè lo farò uguale a te”.
Successivamente, i due si conoscono in un combattimento e diventano inseparabili. Insieme compiono eroiche imprese intese ad assicurarsi l’immortalità tra gli uomini, finchè Ishtar non s’invaghisce di Gilgamesh e, rifiutata da quest’ultimo, provoca la morte di Enkidu.
Gilgamesh si mette alla ricerca disperata di un rimedio che riporti in vita il compagno perduto; quando scopre che non potrà mai ottenere l’immortalità, torna ad Uruk a sperimentare la sofferenza e le gioie umane e ad affrontare ciò che gli resta da vivere.
La trama potrebbe inizialmente lasciar intendere che Enkidu sia una figura strumentale alla soddisfazione dell’ego di Gilgamesh; durante la narrazione, tuttavia, si scopre che le figure sono state create per essere complementari, proprio come Adamo ed Eva e che perfino la morte di Enkidu ha il fine “divino” di educare Gilgamesh all’unica cosa che gli mancava: la compassione.
Comparazioni
Gli autori esaminano le analogie e differenze della storia, sottolineate in due punti principali. Il primo è che il legame affettivo tra Davide e Gionatan è uno degli elementi del racconto, forse neanche il principale e la narrazione s’incentra sulla successione dinastica; nell’epopea di Gilgamesh, la relazione dei protagonisti è invece il fulcro della vicenda.
Il secondo è che, pur se entrambe relazioni sviluppate tra combattenti di pari valore, Gilgamesh ed Enkidu sono stati creati come uguali e la loro relazione è non solo accettata, ma incentivata, mentre il principe Gionatan si fa piccolo di fronte allo sconosciuto Davide per riconoscerlo come il vero re e la loro relazione è ostacolata da Saul e dalla sua famiglia.
La principale analogia è invece la dinamica d’inizio e fine della relazione: la divinità regala un amico speciale al principe, come nelle vicende di Achille e Patroclo, Adriano ed Antinoo, Alessandro ed Efestione, il quale viene a mancare per cause imputabili al divino.
Ultimo, ma non meno importante, il rafforzamento del legame affettivo da parte del sopravvissuto dopo la morte del compagno, come se il protagonista, abbandonato dall’amato in vesti umane, si arricchisse dello spirito di quest’ultimo e giungesse all’illuminazione verso un senso più ampio della vita.
IL NUOVO TESTAMENTO
Gesù insegna che la legge di Mosè dev’essere sempre reinterpretata e che nessuno merita una condanna, in quanto neanche chi la esprime è senza peccato, ma non fa mai alcuna menzione dell’omosessualità, né mai approva o disapprova esplicitamente relazioni affettive tra uomini.
Ne parla invece l’Apostolo Paolo in Romani I – 24,27, condannanno gli uomini che “lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri, commettendo uomini con uomini atti infami”.
La parola greca utilizzata per “natura” è “physis”, ovvero “legge genetica o biologica” e l’espressione “contro natura” implica l’allontanamento da quello che era considerato l’immutabile ordine naturale delle cose e l’incontrollabilità sociale degli individui che non si conformavano ai ruoli previsti e non solo nell’ambito della sessualità.
Appare invece forzata e implausibile l’interpretazione che Paolo non condannasse gli omosessuali “di natura”, limitandosi a giudicare chi si atteggiava a tale, pur non essendolo.
Nella I lettera ai Corinzi 6,9, Paolo si scaglia contro gli ingiusti che non erediteranno il regno di Dio, tra cui “effemminati e pederasti”, che menziona anche in Timoteo 1,10. La perplessità degli autori, in questo caso, è di tipo linguistico: il termine che conosciamo come “effemminato” è una traduzione dal greco “malakos”, cioè “dolce, delicato”, se riferito ad esempio a un oggetto, ma anche “debole di carattere”, se attribuito a un uomo.
Per traslato, potrebbe anche, ma non esclusivamente, essere applicato al partner “passivo” di una relazione omosessuale con ruoli definiti.
Il termine “pederasta” è invece la traduzione di “arseno-koites”, cioè “chi giace con gli uomini”, riferibile a qualunque comportamento sessuale non accettabile socialmente, come la promiscuità o la prostituzione, indipendentemente dal genere di chi lo pratica.
L’attribuzione della definizione al partner attivo di una coppia omosessuale è palesemente “tirata per i capelli”. Paolo stesso, del resto, fa notare che in Cristo non c’è più differenza tra gli esseri umani, di qualunque provenienza e cultura essi siano (Galati 3,8) e rimanda la titolarità del giudizio unicamente a Dio.
Conclusioni
L’interpretazione dell’Antico o del Nuovo Testamento per condannare o legittimare l’omosessualità è, secondo gli autori, una forzatura che non rispetta il contesto in cui i testi sono stati redatti, né lo spirito del messaggio che all’epoca si voleva trasmettere.
Non si può quindi pretendere di ricavare significati validi ai nostri giorni applicando pedissequamente ogni parola che troviamo su testi, sacri per i cristiani e comunque di valore storico anche per praticanti di altre fedi, ma concepiti per un’epoca che aveva conoscenze, priorità e valori diversi dai nostri; si può solo constatare che l’omosessualità è parte integrante della natura umana a prescindere dal periodo storico.
Lo spirito centrale del messaggio divino, al netto delle speculazioni, è quindi ben rappresentato dal brano tratto dal Vangelo di Luca 6,37: “Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati”.
T. Romer – L Bonjour, L’omosessualità nella Bibbia e nell’antico Vicino Oriente, Claudiana, Torino 2007, pagg. 144