L’omosessualità vista dal Catechismo della Chiesa Cattolica
Responsabile del seminario «Teologia e omosessualità» della Facoltà di Teologia e del dipartimento di etica dell’Università Cattolica di Lilla, Padre Dominique Foyer, professore di teologia morale, risponde alle nostre domande sui 3 articoli del Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) che affrontano la questione «omosessualità».[1]Gli articoli 2357, 2358 e 2359 sono raggruppati sotto il titolo «Castità e omosessualità». Perché questo titolo?È significativo che gli articoli del Catechismo della Chiesa cattolica (CCC) che trattano esplicitamente della vita sessuale e affettiva (dal 2337 al 2359) siano raggruppati sotto il titolo «La vocazione alla castità». Ciò indica l’intento generale di questa sezione: la sessualità dell’uomo è interpretata come una «vocazione» (una chiamata di Dio), la cui regola morale è la virtù della «castità», definita con chiarezza dall’articolo 2337 e precisata ulteriormente dagli articoli 2338-2347.
Concerne tutti i cristiani (art. 2348) e non è riservata soltanto alla dimensione sessuale. Bisogna sfatare un luogo comune: la castità non si limita all’astinenza sessuale o alla continenza; si tratta prima di tutto di vivere con gli altri e con sé stessi in un rapporto giusto, rispettoso e riempito di carità autentica.
È interessante notare che l’omosessualità è una questione trattata a parte, nettamente distinta dagli altri atti sessuali che sono raggruppate sotto il titolo «offesa alla castità» (lussuria, masturbazione, fornicazione, pornografia, prostituzione, stupro). Tutto ciò dimostra che i redattori del CCC desiderano trattare l’omosessualità in modo più specifico, senza ridurla a un mero comportamento deviante e peccaminoso.
Nell’articolo 2357, il CCC tratta degli atti di omosessualità e non degli omosessuali: la Chiesa, dunque, disapprova più i comportamenti che le persone?
Proprio così! La morale cattolica[2] distingue sempre tra gli atti e le persone che agiscono. Dio dice che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (Ez 18,32). Ciò è dovuto alla convinzione che noi valiamo più dei nostri atti. È una mancanza di rispetto, ma soprattutto non è realista, affermare che una persona è determinata solo dai suoi atti. Va detto che noi viviamo all’interno di una storia e che i nostri comportamenti possono evolvere. È la condizione stessa della nostra libertà.
Il CCC, all’art. 2358, distingue tra le persone («Un numero non trascurabile di uomini e di donne»), il loro orientamento affettivo-sessuale (le «tendenze omosessuali», chiamate anche «propensione» o «condizione omosessuale») e gli atti concreti con i quali a volte si oggettivano queste tendenze. Il giudizio morale è sugli «atti» (che l’art. 2358 definisce «intrinsecamente disordinati»), sulla «propensione» (definita «oggettivamente disordinata» dall’art. 2358) e sulle persone stesse, nella misura in cui queste possono padroneggiare i loro atti, anche se non devono scappare da una «condizione omosessuale» che non hanno scelto.
Ne consegue che se si considerano gli atti in quanto tali («intrinsecamente» o «oggettivamente»), è indispensabile contestualizzare le persone nella loro storia individuale, nella loro libertà e nelle scelte che fanno. E anche se una persona si mostra carente dal punto di vista morale in un momento ben preciso della sua vita, non ci si può certo fermare qui, in quanto è sempre bene aspirare ad un miglioramento all’evoluzione e al progresso morale (art. 2359).
Sempre all’art. 2357, si legge: «Non sono il frutto di una vera complementarietà affettiva e sessuale». A cosa invita la Chiesa?
Questa «complementarietà affettiva e sessuale» indica la complementarietà uomo/donna. Agli occhi della tradizione cattolica, fissata sull’osservazione della realtà naturale e della Rivelazione biblica, c’è un dato di fatto: uomo e donna sono complementari, soprattutto dal punto di vista affettivo e sessuale.
Chiaramente, esistono anche altri tipi di «complementarietà»: l’amicizia tra due donne o tra due uomini ne è un esempio; anche la complementarietà tra i genitori e i loro figli ne è un esempio. Ci sono numerosissimi esempi. Ma tutte queste complementarietà non sono né identiche né equivalenti.
Nei casi degli atti omosessuali, anche quando si tratta di una coppia stabile e in cui c’è amore reciproco, la Chiesa afferma che «Non sono il frutto di una vera complementarietà affettiva e sessuale»: la parola importante è «vera»: anche se è evidente che si sperimenta una complementarietà forte tra due persone dello stesso sesso che si desiderano reciprocamente e che vogliono amarsi per tutta la vita, ai loro atti sessuali mancherà sempre ciò che caratterizza l’atto di unione di un uomo e di una donna: il vissuto carnale ed esistenziale della differenza e della complementarietà dei sessi. Da questo punto di vista, l’atto omosessuale è sempre «difettoso», nel senso che non si riscontra la pienezza dell’incontro che c’è tra l’uomo e la donna. Per cui, non si tratta di un atto sessuale «vero» nel senso di «completo»; qui troviamo la questione della «donazione totale di sé stessi», soprattutto dal punto di vista fisico, usata da Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Familiaris consortio (n. 11).[3]
La Chiesa non dice che questi atti omosessuali sono senza valore, né senza alcuna portata: non si pronuncia su questo punto, ma si limita a definirli «disordinati» Qui, il testo originale latino usa una parola che ci permette di capire meglio: inordinatos, la cui traduzione più adatta sarebbe «non ordinati», piuttosto che «disordinati». L’idea di fondo è che questi atti non sono in armonia col disegno creatore di Dio.
L’articolo 2358 precisa: «Devono essere accolti con rispetto, compassione e delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione». Perché questo invito è poco conosciuto?
Perché è ancora poco conosciuto il pensiero della Chiesa: chi ha letto con attenzione tutto il CCC? È citato dai sacerdoti? È studiato dai pastori e dai fedeli? Si cerca di trarne tutte le conseguenze pastorali?
Che dire a coloro che accusano la chiesa di «tendere la mano agli omosessuali»?
Si può rispondere con la prima frase della costituzione Gaudium et spes:[4] «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.»
Molto spesso, le persone omosessuali sono persone che soffrono della loro situazione che li emargina e che li espone ad ogni tipo di presa in giro e di etichetta non sempre gradite. Queste persone sanno che la loro sofferenza è iniziata quando si sono rese conto di essere in questa situazione e hanno dovuto renderla pubblica. Tutto questo non può non trovare eco nel cuore dei discepoli di Cristo.
Ma soprattutto è bene sottolineare che le comunità cristiane concrete (diocesi, parrocchie, movimenti, etc.) stanno lavorando davvero sodo perché le persone omosessuali si sentano davvero accolte «con rispetto, compassione e delicatezza» e senza alcun «marchio di ingiusta discriminazione».
L’articolo 2358 prosegue: «Tali persone sono chiamate (…) a unire al sacrificio della Croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione». Cosa significa concretamente?
Questo invito è difficile da comprendere in un’epoca in cui il mistero della Croce di Cristo non è sempre al centro della vita dei cristiani, perché è questo il posto che gli spetta nella fede cristiana. Ricordiamo semplicemente che unirsi al sacrificio della Croce di Cristo è il normale cammino di chiunque cristiano (cf. Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23; Gv 12,26). È ciò che viviamo nei sacramenti[5] e soprattutto, nella nostra partecipazione all’eucarestia.[6]
Ciò che è proposto alle persone omosessuali («unirsi al sacrificio della Croce del Signore») è un mezzo per modificare la loro situazione concreta, che devono subire senza averla voluta o scelta (il CCC parla della loro «condizione omosessuale»), per poterne fare un dono gioioso e ricco d’amore a Nostro Signore Gesù Cristo, per la salvezza del mondo.
Ma è anche importante concretizzare questo cammino di santificazione: è proprio qui che diventa indispensabile la testimonianza delle persone omosessuali. Questo cammino di santificazione non è riservato solo alle persone omosessuali: in realtà è proposto a tutti i cristiani (cf. Preghiera eucaristica n. 4: «Perché non viviamo più per noi stessi, ma per Lui…»).[7]
L’articolo 2358 richiama le persone omosessuali alla «castità». Non è utopico?
Ciò può apparire utopico a tutti coloro che non comprendono che la «castità» è innanzitutto una dinamica esistenziale. Ma nel momento in cui si comprende la vera portata del termine, non sarà più una questione utopica. L’uomo non è prigioniero dei suoi istinti come lo sono gli animali. La Chiesa crede nella nostra capacità di padroneggiare i nostri istinti, anche quelli più violenti. L’altro non è una preda. La nostra vita personale non è un possedimento che possiamo conservare gelosamente. Il Cristo ci mostra il modo con cui operare questo distaccamento.
In realtà, noi siamo fatti per donarci, e per donarci totalmente. Le persone omosessuali hanno anche un desiderio forte di fare della loro vita un dono. A volte pensano di trovare il/la partner con cui realizzare questo desiderio. La prospettiva di concepire o di adottare un bambino è spesso vissuta come la concretizzazione di questo desiderio di donare la propria vita agli altri, per gli altri. Tutto ciò è rispettabile, ma richiede anche un discernimento etico e spirituale.
È indispensabile capire qual è il significato profondo degli atteggiamenti concreti, su ciò che implicano per noi, per gli altri e per la società. Il «bene» deve essere «relativizzato» dal concetto di «bene comune».
L’articolo 2359 invita le persone omosessuali ad «Avvicinarsi (…) alla perfezione cristiana». Cioè?
Secondo il Vangelo, siamo chiamati alla «vita perfetta»,[8] alla sequela di Cristo grazie alla forza che ci dà. È indispensabile che ci impegniamo con tenacia e con tutta la nostra buona volontà in ciò che a volte è una vera e propria battaglia spirituale.
In questa frase, gli autori del CCC hanno inserito degli avverbi molto significativi: «Gradualmente» e «risolutamente». Il primo, «gradualmente», indica che il «cammino di perfezione» (Santa Teresa d’Avila) non si percorre istantaneamente: ci sono dei passi in avanti, ma possono anche esserci dei passi indietro; ci sono momenti di stagnazione spirituale, ma possono anche esserci delle percezioni folgoranti (una conversione improvvisa, una liberazione quasi miracolosa, etc.).
Il secondo, «risolutamente», indica che il cammino di castità implica un impegno concreto della persona omosessuale. Non si può fare niente se si è convinti che non si potrà mai fare niente! Va detto inoltre che se continuiamo ad affermare che la condizione omosessuale non pone nessuna difficoltà né alle persone che la vivono né alla società, no riusciremo più a cambiare le cose. Qui, ancora una volta, è fondamentale essere realisti.
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[1] Teologia e omosessualità sembrano avere un rapporto conflittuale. Si veda: Istruzione della Congregazione per l’educazione cristiana sui criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al seminario e agli ordini sacri «In continuità», in Denz. 5100 e C. Caffarra, Viventi in Cristo. Compendio della morale cristiana, Cantagalli, Siena 2006, 214. Si veda inoltre: Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede su alcune questioni di etica sessuale «Persona humana», in Denz. 4583; Nota della Congregazione per la dottrina della fede circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali «Diverse questioni», in Denz. 5096 e Pontificio consiglio della giustizia e della pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, 228. È bene precisare che quando si cita il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, il/i numeri che chiude/chiudono la/le citazione/i non è/sono il/i numero/i di pagina/e, ma si tratta del/dei numero/i ordinali all’interno del documento stesso.
[2] Per le principali questioni di teologia morale si veda: Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Veritatis splendor», in Denz. 4950-4971.
[3] Denz. 4700-4703.
[4] Denz. 4301-4345.
[5] Si veda: Concilio di Trento, Decreto sui sacramenti, in Denz. 1600-1630.
[6] Si veda: Concilio di Trento, Decreto sul sacramento dell’eucarestia, in Denz. 1635-1661. Si veda inoltre: Concilio di Trento, Dottrina e canoni sulla comunione sotto le due specie e la comunione dei fanciulli, in Denz. 1725-1734 e Concilio di Trento, Decreto sulla richiesta di concessione del calice, in Denz. 1760.
[7] Si veda: Concilio ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa nel mondo contemporaneo «Lumen Gentium», in Denz. 4103. In questa parte, infatti, la preghiera eucaristica si rifà a questo documento del Concilio: «Da Lui veniamo, per Lui viviamo, a Lui siamo diretti» (LG 3).
[8] Si veda: Concilio ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa nel mondo contemporaneo «Lumen Gentium», in Denz. 4165-4166.
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Testo originale: