L’ultimo muro. Le vite di gay e lesbiche polacche prima e dopo il 1989
Articolo di Mariusz Szczygiel, La Repubblica, 11 agosto 2011, pp.44-45
Nel 1986 avevo 20 anni ed ero il più giovane giornalista di Na przelaj, un settimanale (ndr Polacco) per adolescenti controllato dallo Stato.
A quel tempo tutto era statale, e il comunismo sarebbe crollato solo tre anni dopo.
Un giorno mi capitò tra le mani la lettera di un lettore che aveva quattro anni meno di me: ‘Nella vostra rubrica Cerco Amico molti adolescenti scrivono: non bevo, non fumo, apprezzo l´onestà. E se uno scrivesse, per dire: non bevo, non fumo, ma sono un frocio pervertito, e per giunta lasciasse il proprio indirizzo?’.
Già. Sulla stampa polacca dell´epoca era bandita non solo la parola “frocio”, ma persino “omosessuale”. Quello dell´omosessualità era infatti uno dei principali argomenti tabù.
In tutto il paese non esistevano né un club né una rivista gay. Così mi venne l´idea di scrivere un reportage sui giovani gay (un vocabolo sconosciuto nella Polonia di allora).
Scoprii che molti di loro ci spedivano lettere che immancabilmente finivano compresse in fondo allo scaffale della corrispondenza.
Il caporedattore accettò. Andai a parlare con dei ragazzi, e una mia collega rintracciò alcune ragazze.
Intitolammo il nostro reportage Assoluzione. Uscì sul numero 51/1986 che in copertina portava il disegno di due cravatte intrecciate.
La redazione fu subissata di lettere. Sono passati 25 anni, ma ricordo ancora che dopo due mesi ne avevamo contate 763 o 673.
I giovani di campagna e delle piccole città ci supplicavano di metterli in contatto con qualcuno.
Mi sento come una pezza da piedi. Faccio sesso solo con ubriaconi. Dove sono quelli che potrebbero diventare miei amici? (Marek, 18 anni).
Penso di essere degna solo di venir presa a sberle. Da un anno mi faccio di pastiglie di ogni tipo, talvolta anche di alcol (Alina, 17 anni).
Ci sembrò che la vita di molti dei nostri giovani lettori fosse appesa a un filo. Decidemmo di ritrovarli. Il problema era che per paura non avevano indicato il proprio indirizzo.
Non volendo mettere in piazza le loro angosce, ci risolvemmo a pubblicare una serie di annunci “Cercasi”: Sven (sono stato sconfitto dal fato); Lettore di Swinoujscie (finirò col darmi alla delinquenza); Agnieszka (sto per distruggermi); Pawel (sono ridotto all´ombra di me stesso, ho bisogno di trovare qualcuno come me).
Iniziammo ad accoppiare e a mettere in contatto i mittenti delle lettere. Non era facile. Infatti ben presto cominciarono ad arrivare lettere di ringraziamento ma anche di reclamo: avrei preferito un ragazzo più alto, oppure: questa Monika non ha niente di femminile.
I ragazzi gay che bazzicavano gli ambienti omosessuali delle città più grandi ci segnalarono che era nata una sorta di parola in codice: Quello lì per caso è un 5-1?, Ho conosciuto due ragazzi 5-1.
Avevano cominciato a chiamarsi segretamente “cinque-uno” prendendo spunto dal numero 51 di Na Przelaj su cui era apparso il nostro reportage.
Va ricordato che tutto ciò accadeva nell´epoca dei crimini contro la ragione e l´intera vicenda poteva finire nel peggiore dei modi.
La polizia diede prontamente inizio al fermo di massa degli omosessuali.
Venivano prelevati dalle fabbriche, dagli uffici e dagli atenei, e trasportati ai commissariati con l´ordine di prenderne le impronte digitali (nome in codice dell´operazione: Giacinto).
Le autorità ritennero opportuno schedare ogni omosessuale che viveva in uno stato socialista.
In quegli stessi giorni ben 400 detenuti politici marcivano nelle prigioni, e a un attivista di Solidarnosc clandestina, Jan Krol, venivano strappate le unghie con delle tenaglie.
Nulla di strano quindi che il mio caporedattore venisse convocato alla Sezione della Stampa del Comitato Centrale del partito comunista polacco, preposta alla vigilanza ideologica anche sul nostro giornale.
I compagni non riuscivano a capacitarsi come un periodico socialista giovanile avesse potuto impelagarsi in un argomento «tanto equivoco sul piano politico, sociale e morale».
Né come mai ci fossimo appropriati dei «temi di evidente pertinenza delle riviste mediche».
Al mio capo fu suggerito di consegnare tutte le lettere dei giovani gay e lesbiche al Comitato Centrale «dove sarebbero state al sicuro, senza il rischio di finire nelle mani sbagliate, e nessuno avrebbe fatto del male ai ragazzi».
Ribatté che erano già state tutte rispedite ai lettori per metterli in contatto gli uni con gli altri.
«Non ne vedranno nemmeno una!» dichiarò al ritorno. Riponemmo una parte delle lettere nella cassetta per i soldi. Il resto fu portato via da un collaboratore della rivista e nascosto in casa sua.
Poco dopo venni accostato da una macchina con dentro due uomini in borghese. Uno di loro scese, mi sventolò un tesserino davanti al naso, e m´invitò a salire dandomi dei lei.
L´uomo alla guida mi chiese se studiassi scienze politiche e giornalismo (a quello, di darmi del lei, non gli riusciva proprio).
Poi fece: «Se non la smetti di occuparti di culattoni, ti sbatteremo in uno scantinato e te lo spaccheremo a te, il culo, così ti passa la voglia di giocare al giornalista, e dovrai scordarti anche l´università. E ora levati dal c…!».
Appena uscito da quella macchina ebbi urgente bisogno di un gabinetto (introvabile). Il mio intestino non aveva retto allo stress.
Ancor oggi mi domando come mai le autorità comuniste se la prendessero tanto per il fatto che mettessimo in contatto persone dello stesso sesso.
Se penso però che negli stessi anni, a seguito di un intervento dell´ambasciatore sovietico, fu mandata al macero un´intera tiratura delle poesie di Osip Mandel´stam che contava ben 30 mila copie (perché nella raccolta era stato incluso qualche componimento inedito nell´Urss), allora mi dico che farebbe prima a capire la sua colpa Josef K., che non io le ragioni di un simile modo di agire.
Senza il Muro
Nell´autunno del 2008 ricevetti un´email: Tanti e tanti anni fa entrambe avevamo scritto una lettera a Na przelaj. Ci sentivamo completamente sole. Avevi risposto a tutt´e due mandando all´una l´indirizzo dell´altra. Sono 22 anni che stiamo insieme.
Andai nella città in cui vivevano. è stato uno degli incontri più commoventi della mia vita. Desideravano sapere: «Cosa ti aveva fatto unire proprio noi due?».
Entrambe avevano risposto subito al nostro annuncio. Ricordavo di aver disposto sul tavolo le prime quattro lettere arrivate, tutte di ragazze, lambiccandomi su come abbinarle. Alla fine le avevo incrociate a caso.
Durante la cena seguitammo a parlare di quanto fosse meraviglioso che loro due potessero amarsi, visto che nel momento in cui cadeva il totalitarismo tutti rivendicavano anche il diritto di essere se stessi.
E di poter decidere liberamente della propria vita. Mi congratulai con le due donne per il coraggio di vivere insieme alla luce del sole.
«Ah no no!» s´affrettarono a spiegare. «Siamo sposate. Entrambe con uomini gay.
E questa specie di camuffamento ha permesso a tutt´e quattro di sopravvivere fino a oggi nel nostro paese cattolico».