Ma gli altri, tutte storie brevi? Se l’amore non eteronormato chiede di usare (e osare) creatività
Riflessioni di Paolo Spina de La tenda di Gionata
Nei giorni scorsi il caro Luigi Testa ha proposto interessanti spunti su Desiderio e amore coniugale omosessuale. Dopo la lettura di queste riflessioni, ho condiviso anche con amici quanto le sue righe facevano risuonare in noi e, come seguendo cerchi concentrici, più volte ho provato ad ascoltare il mio sentire e la mia esperienza di giovane uomo, di battezzato, di marito.
Non troppi giorni fa, partecipando alla liturgia nuziale di una coppia di amici, uno dei fuochi dell’omelia – centrata come un’ellisse da un lato sulla pericope delle beatitudini (Mt 5,1-12), dall’altro sull’inno paolino all’amore (1Cor 13,1-13) – insisteva sulla “via migliore di tutte”, accennando così (più o meno in questi termini, non letteralmente): “tante possono essere le relazioni affettive e amorose buone; i cristiani, però, si distinguono per puntare in alto, verso Gesù, la cui proposta in tal senso si può riassumere nei due sacramenti del servizio, cioè ordinati alla salvezza altrui (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1534): l’ordine e il matrimonio”.
Questa visione, a mio avviso, ha molto più a cuore il rispetto della rubrica, anziché la felicità della persona. E quante e quanti non si riconoscono in una di queste due vie, quali cammini dovrebbero percorrere? O quante e quanti sono impediti di camminare – sacramentalmente parlando, e non solo – su quelle strade tracciate dalle mappe riconosciute come ufficiali, dovrebbero perseguire vie considerate meno nobili, raggiungere mete meno promettenti?
In altre parole, è necessario cantare l’ultimo successo di Annalisa e Tananai sulla pelle di troppe sorelle e fratelli: “Ma gli altri, tutte storie brevi”? È così vero?
A partire dal XII secolo e successivamente confermato dai decreti del concilio di Trento, i sacramenti della Chiesa cattolica sono sette, così come li abbiamo imparati (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1210). Non posseggo gli strumenti teologici necessari per imbarcarmi in una dotta disquisizione, ma credo di non uscire troppo dal seminato (ho precedenti illustri, perché i Padri della Chiesa non li avevano mai contati!) nel poter descrivere i sacramenti come una sorta di settenario allargato: non (tanto) sette, ma due (battesimo ed eucaristia, costituenti la Chiesa, popolo delle discepole e dei discepoli di Gesù, famiglia delle figlie e dei figli di Dio) + cinque + …tanti.
Perché posso dire così? Perché se sacramento è segno sensibile ed efficace della grazia, nell’esperienza di molti di noi sono segni della presenza di Dio nella nostra vita anche le benedizioni, la preghiera, la lectio divina, e ancora forme di particolare consacrazione, legami di amicizia, relazioni d’amore, diventare genitori, e molto altro ancora.
No, non voglio sentire le unghie che stridono sul vetro degli specchi cercando arzigogoli teologici capaci di tirare acqua al mulino dell’una o dell’altro, però penso alla storia dei sacramenti perché insegna che lo Spirito Santo lavora con creatività (che bello!) e, ascoltando lo Spirito, la Ruah, voglio, anche io, uscire dal rassicurante orticello di chi ignora che “il campo è il mondo” (Mt 13,38).
Voglio anche io svegliarmi e alzarmi per cercare chi il mio cuore ama, incurante di chi sostiene che non si debba uscire di notte e sia sconveniente per una donna sposata parlare con i soldati che fanno la ronda (Ct 3).
Voglio farlo come figlio a pieno titolo del tempo in cui vivo: una società liquida per alcuni, che osa dissolvere anche la sacralità della monogamia, valore pressoché non negoziabile secondo molte culture e religioni, tra cui quella cristiana; un’epoca segnata dalla secolarizzazione… e dunque votata alla decadenza morale? Solo a titolo di esempio, il sociologo Hans Joas si pone questa domanda e prova a rispondervi offrendo una visione alternativa, centrata sulla sacralità della persona (Hans Joas, La sacralità della persona. Una nuova genealogia dei diritti umani, 2016).
È una suggestione interessante – e non è questa la sede per parlarne in modo opportuno, né io mi sento competente a farlo – perché a mio avviso propone un generoso salto verso l’inesplorato: un atto irresponsabile (o coraggioso?!) lasciare la confortevole sicurezza del “Ma io sono fatto così e non cambierò mai!” per esplorare un altrove al di là di quei limiti che, sì, possono definirmi, quanto opporsi alla bellezza di un viaggio che inizia proprio oltrepassandoli.
Per questo mi domando se, quasi assecondando l’invito di chi dipinge l’amore non eterosessuale come qualcosa di “altro”, di “diverso”, non sia addirittura necessario da parte mia usare e osare tutta (e anche oltre!) la dose di creatività che rende ogni figlia e figlio di Dio collaboratore della fatica gioiosa e della gioia faticosa di Chi ci ha create e creati.
Per questo ascolto con orecchio attento quell’angelo che su una tomba vuota – come un recinto chiuso quando ormai molte e molti sono scappati o dal quale sono stati cacciati – mi invita con fare perentorio a non cercare la vita dove ormai non c’è più, perché il velo del tempio è stato squarciato e la presenza di Dio amante e vitale irrompe dilagando anche in quelle esistenze additate come lontane da ciò che è santo.
Non voglio pensare sia solo un caso fermare su carta queste impressioni nel giorno in cui secondo il calendario ebraico, il 15 del mese di Av (quest’anno 2024 proprio il 19 agosto) ricorre Tu B’Av, ultima festività dell’anno, legata all’amore e ai fidanzamenti. È una festa minore, così antica che si fatica a stabilirne origini e motivazioni, ma una delle ultime pagine del Talmud descrive come si debba festeggiare: in questo giorno le figlie di Gerusalemme scendevano nelle vigne e danzavano – anticamente era la festa della fine della vendemmia – tutte vestite di bianco. C’è di più: le ragazze si scambiavano gli abiti tra loro, così che capitava che la meno abbiente vestisse i lini pregiati della giovane di nobile stirpe.
Così, chi cercava l’amore, era attratto non tanto dall’apparenza del vestito o dal ceto sociale, quanto da chi fosse a vestirlo. È una festa tanto dolce quanto ricca di senso, perché invita a fissare lo sguardo non da dove provengo, o su cosa posseggo, ma a chi sono io, come la mia anima danza e con chi.
Sono ben consapevole che questa sia un’epoca di trapasso: letteralmente di qualcosa che muore, ma anche di qualcosa che “passa oltre”, che chiede cuore e mente capaci di fare spazio e accogliere. Può essere qualcosa di violento, che lacera, creando divisione. Può, invece, anche essere una lotta paziente, come quella della vedetta che sa stringere le palpebre, anche in piena notte, e scrutare per prima la terra che emerge dall’oscurità del mare e del cielo.
Secondo la teologia cristiana, Dio non necessita della creazione per essere Dio. Non crea per necessità o utilitarismo, ma esclusivamente per amore. L’amore di Dio non deriva da un bisogno: per questo Dio ci invita a fare lo stesso, assecondando questa inesausta gratuità. È in quest’ottica che comprendere la complessità della realtà ci richiede un’apertura non solo a ogni diversità dell’altro – sessuale, biologica, di coscienza di genere, di desiderio – ma a riconoscere in (tutto, tutto!) questo oceano solo parzialmente esplorato una benedizione di Dio: anche dove non siamo capaci di dire il bene su una coppia che apre il proprio legame sessuale ad altre o altri, o su amicizie che conoscono anche la condivisione dell’intimità e della fisicità, o ancora su una sessualità che segue schemi inediti alle generazioni che ci hanno preceduto.
È una sfida che ci spinge a superare i limiti del nostro concetto di amore? Sì. E questo non significa che arrivi a negare Dio o a non saziare la nostra sete di L*i.