Mi sono scoperta lesbica e cristiana a quarant’anni. Avrei potuto capirlo prima?
Lettere a casa: Crescere (non) lesbica
Testo di Alyce Keener*, pubblicato su Whosoever (Stati Uniti) in data 5 giugno 2023.
Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata.
Ho fatto coming out con me stessa a quarant’anni. Però continuo a domandarmi: non avrei potuto capirlo prima? L’ho chiesto a tante persone LGBTQ+: “Quando l’hai capito?”. Molti mi hanno risposto: “Alle superiori”. E allora perché io no?
È una domanda che non si pongono mai le persone etero. Loro lo sanno e basta. Io sono cresciuta con due genitori eterosessuali, e non ricordo che mi sia mai stato detto che potevamo amare chi volevamo.
Per me era scontato che avrei sposato un uomo e fatto figli. E che tu, da fratello, non avresti mai dovuto sposare un uomo. Ci credevo sul serio, e a 25 anni mi ricordo che ne parlavo con le amiche. A quell’età ero già considerata una zitella: niente figli, neanche un fidanzato!
Ho incontrato tante persone che invece lo sapevano da sempre. Ma come facevano a saperlo – e io no?
Spegnere l’interruttore
Quand’è che una persona lesbica o gay comincia a sentirsi “diversa” dalla norma? Quand’è che si accende quel “brivido” che ti prende quando sei attratta da qualcuno del tuo stesso sesso?
Nel mio caso, quel momento è arrivato a quarant’anni, quando ho iniziato a chiedermi perché fossi ancora single. Te l’ho già raccontato: fu durante una seduta con la terapeuta. Mi chiese: “Hai mai pensato di poter essere lesbica?”. Quella domanda fu la chiave che aprì la porta alla scoperta del mio vero io, unico e autentico.
Ma mi chiedo spesso: quand’è che ho “spento” la mia parte lesbica? Perché non sono riuscita a riconoscerla? Nessuno mi aveva insegnato ad accogliere le mie differenze. Non avevo mai sentito dire che ero meravigliosamente e unicamente creata a immagine di Dio.
Non ricordo neanche se conoscessi persone gay, o se pensassi che esistessero davvero. Ma ricordo bene che dovevo “prepararmi alla vita”, perché sarebbe stata dura. Avevo un ruolo da interpretare.
Come donna, mi era stato insegnato che conformarmi mi avrebbe reso la vita più semplice. Erano gli anni in cui andava di moda “Stand by your man” di Tammy Wynette. Solo molto più tardi capii quanto trovassi umiliante quella canzone. Cioè, se il tuo uomo ti tradisce, perché dovresti stargli accanto? Ma negli anni Sessanta, a quanto pare, si faceva così.
Come avrei potuto saperlo?
Tutti ci facciamo domande sulla nostra vita e sulle scelte che facciamo. Ce le facciamo in continuazione. Tipo:
Come faccio a sapere se sono innamorata?
Come faccio a sapere se è la persona giusta?
Come faccio a sapere se questo lavoro mi piacerà per tutta la vita?
Come faccio a sapere se questo sport è quello che voglio praticare?
Come faccio a sapere se questa passione è quella che mi definisce?
Come faccio a sapere se sono capace di predicare?
E come faccio a sapere se sono brava a scrivere lettere a casa e a condividere quello che sento? (Spoiler: non è facile.)
Sono tante le domande che ci portiamo dietro. E cambiano ogni giorno, ogni settimana, ogni anno. Cresciamo, cambiano gli obiettivi, cambiamo noi. I nostri genitori provano a prepararci per il futuro, per le difficoltà della vita.
Ma nessuno ci insegna a chiederci, in modo sereno: “Perché mi sento attratta da una persona del mio stesso sesso?”. Nessuno ci dice che potrebbe essere giusto così.
Per la nostra generazione, le mamme ci insegnavano a cucinare, cucire e pulire. I papà, secondo lo stereotipo, ci insegnavano a difenderci, a sparare con il fucile, a pescare, a curare il giardino, a capire come funziona una macchina e a fare qualche lavoretto in casa.
Però, ecco, un bel ricordo che ho con te: papà ci ha insegnato a fare le foto. Anche in bianco e nero. E ci ha mostrato pure come svilupparle e stamparle. Ci ha insegnato tante cose che ancora oggi mi tornano utili. Ma no, non ci ha spiegato come si fa a uscire con qualcuno. Né come ci si sente quando ti piace davvero tanto una persona.
Da “non a mio agio” a “ci sto bene”
C’è stato un momento, nella mia infanzia, che avrebbe potuto darmi un indizio? Sì, forse: avevo circa dieci anni, ero in Ohio prima di trasferirci in Michigan. Io e un’amichetta ci baciammo, nascoste nel camper della sua famiglia. Mi ricordo che lei disse che i suoi genitori non dovevano saperlo. Forse quello era il momento in cui avrei potuto capire di essere lesbica. Oppure fu proprio quel divieto, quel “non si può sapere”, a farmi chiudere tutto?
Sapevo solo che essere vicine, troppo vicine, a un’altra donna non era una cosa “buona”. Però non avevo mai dato molto peso all’idea di stare con un uomo. Non mi veniva proprio in mente.
Per gran parte della mia vita, ho evitato di dormire nel letto con un’altra donna. Quando capitava, mi rintanavo al bordo del materasso. Non perché sospettassi di essere lesbica, ma perché non mi piaceva l’idea che qualcuno mi toccasse mentre dormivo. Non facevo proprio collegamenti con il mio orientamento.
Al college dormivo nel dormitorio femminile. Mi piaceva il fatto che ci fossero le docce singole. E mi assicuravo di farla presto, prima che arrivassero le altre. Dividevo la stanza con un’altra ragazza, ma siamo diventate amiche e basta. Avevamo letti separati, e questo aiutava a mantenere le apparenze eterosessuali. Qualche volta ho anche frequentato uomini.
Poi mi sono trasferita vicino a Chicago. Ma anche lì, l’essere lesbica non era ancora entrato nel mio radar. Non uscivo con nessuno, non volevo. Mi concentravo sul lavoro — che era un’ottima scusa per non avere una relazione. In quel periodo le donne lottavano per i propri diritti, era nell’aria la liberazione femminile.
Ho avuto lavori “non convenzionali”. Ero l’unica donna tecnico in una ditta ambientale. Ora, a ripensarci, erano segnali evidenti: stavo già vivendo da lesbica butch.
Perché non me ne sono accorta prima? Probabilmente perché la società mi lanciava messaggi del tutto contrari. E io li ho assorbiti.
Sono fuori e fiera di averlo fatto
Non saprei dire quando ho “chiuso” con le mie emozioni. Ma so che a quarant’anni volevo riaccenderle. Volevo uscire con qualcuno. Non volevo più essere sola. Volevo avere accanto una persona con cui condividere anche i momenti duri — come quando è morta la mamma.
Ora so che sono stata lesbica per tutta la vita. Solo che non sapevo leggere i segnali. Non sapevo sentire altro che quello che mi era stato detto.
Mi piaceva guardare le donne. Mi facevano sentire viva dentro. Ripensandoci, ci sono stati tanti momenti in cui, se solo avessi accolto chi ero, la mia vita avrebbe potuto essere molto diversa.
Quello che ho imparato è questo: sono sempre stata lesbica. Solo che non avevo modelli. Mi era stato detto chi dovevo essere. Non sapevo neppure che si potesse amare una donna. Le persone spesso vengono private della possibilità di scegliere. Non vengono messe a conoscenza di tutte le opzioni che esistono.
Ma ora che lo so, non permetterò mai più a nessuno — nemmeno a me stessa — di spegnere quello che provo. I miei pensieri. Le mie emozioni. La mia identità. È come se mi fossi finalmente concessa di conoscermi, accogliermi, affermarmi. Meglio tardi che mai.
*Alyce Keener è stata a lungo responsabile dell’educazione religiosa presso la Gentle Spirit Christian Church di Atlanta. Fin da piccola ha sentito una doppia chiamata: verso l’insegnamento e verso Dio. Dopo aver frequentato una vacanza biblica da bambina, ha iniziato a pregare ogni giorno e, in seguito, ha approfondito lo studio della Bibbia all’università, partecipando anche ai corsi del Moody Bible Institute. Originaria dell’Ohio, ha studiato in Illinois e ha prestato servizio in diverse chiese locali, occupandosi di comitati missionari, biblioteche, programmi educativi e pastorali per giovani adulti.
Testo originale: Letters to Home: Growing Up (Not) Gay