Monsignor Francesco Savino: “nel cuore del Vangelo nessuno è escluso”

Intervista di Sara Spera* con Monsignor Francesco Savino
Monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana, è un pastore attento agli ultimi e promotore di un’accoglienza evangelica capace di includere ogni persona, nel segno della misericordia e della dignità.
Si distingue per una visione pastorale profondamente radicata nel Vangelo, vissuto a partire dalle periferie dell’esistenza. Attento agli ultimi, vicino a chi spesso resta ai margini della società e della Chiesa cattolica, ha fatto della prossimità ai fragili il cuore del suo ministero. Il suo stile pastorale è segnato da un ascolto autentico, da una cura discreta e da un impegno concreto per un’accoglienza che non esclude, ma include.
La sua testimonianza è quella di un pastore che crede in una Chiesa cattolica capace di farsi compagna di strada, che annuncia il Vangelo partendo dai volti, dalle storie e dalle ferite di chi spesso non ha voce.
Tra i tratti distintivi del suo cammino pastorale c’è l’attenzione costante ai giovani: li accompagna con uno stile di guida non impositiva, ma generativa, capace di valorizzare le domande, i dubbi e le inquietudini proprie della loro età. Ha promosso percorsi di formazione spirituale e sociale, incoraggiato esperienze di volontariato e cittadinanza attiva, e sostenuto iniziative di dialogo intergenerazionale e interculturale, sempre con l’intento di restituire ai giovani fiducia, spazio e responsabilità all’interno della comunità ecclesiale.
La sua testimonianza è quella di un pastore che crede in una Chiesa cattolica capace di farsi compagna di strada, che annuncia il Vangelo partendo dai volti, dalle storie e dalle ferite di chi spesso non ha voce. Mons. Savino incarna una visione di Chiesa attiva e solidale verso gli ultimi. Il suo messaggio è chiaro: accogliere senza discriminazioni, trasformare l’accoglienza in presenza concreta, fare degli emarginati soggetti centrali del Vangelo, difendere i diritti di tutti, nel rispetto della dignità e della legge.
Non stupisce dunque, la scelta di Monsignore Savino di accogliere la richiesta dell’Associazione La Tenda di Gionata nel presiedere la Santa Messa prevista per il prossimo 6 settembre 2025, presso la Chiesa del Santissimo Nome di Gesù, (spesso chiamata semplicemente Chiesa del Gesù), a Roma, come una delle tappe centrali del pellegrinaggio giubilare verso le Porta Santa dell’Associazione con i cristiani LGBT+, i loro familiari e gli operatori pastorali che gli accompagnano.
A lui abbiamo voluto rivolgere alcune domande, per comprendere meglio come si possa costruire oggi un’esperienza di Chiesa cattolica più inclusiva, in linea con il messaggio evangelico di accoglienza e prossimità, davvero capace di includere tutti.
Monsignore Savino, con un messaggio evangelico che ci invita ad agire come cristiani, nel quotidiano, sull’esempio della parabola del ‘Buon Samaritano’, in cui l’amore cristiano supera i confini religiosi, sociali ed etnici, in cui la compassione sia forma attiva dell’amore – una critica implicita alla religione vissuta in modo sterile – che ‘forma’ assume, a suo parere, questo momento di condivisione dell’Eucaristica nell’accoglienza dell’Associazione ‘La tenda di Gionata’ e altre realtà simili?
Nel cuore pulsante dell’Eucaristia — che è il cuore stesso del Vangelo — nessuno è straniero, nessuno è escluso, nessuno è invisibile. Il pane spezzato sull’altare non conosce barriere di nascita, di lingua, di condizione sociale o di percorso di vita: esso è dono totale, che si offre a ogni uomo e a ogni donna come segno tangibile di una misericordia più forte di ogni pregiudizio.
Celebrare la Messa con La Tenda di Gionata e con tutte le realtà che operano per la dignità e l’inclusione, significa incarnare — nella carne viva della comunità — la parabola del Buon Samaritano. Significa lasciarsi ferire dalla sofferenza e dalla solitudine dell’altro, piegarsi per fasciare le sue piaghe, e non limitarsi a guardare da lontano in nome di una religione puramente rituale.
L’Eucaristia, in questo senso, è un grembo materno che accoglie, e non un recinto che respinge; è casa dalle porte sempre aperte, dove la pietra d’angolo è l’Amore senza condizioni. È nell’incontro dei volti e nella condivisione del pane che la Chiesa ritrova la sua vocazione originaria: essere non fortezza per pochi, ma tenda per tutti, capace di abitare le periferie dell’anima e della storia.
Ecco perché questo momento non è soltanto una celebrazione liturgica: è un atto profetico, un segno che annuncia al mondo che nel Regno di Dio non esistono “ospiti” e “padroni di casa”. Esistono solo figli e figlie, convocati alla stessa mensa, trasformati dall’unico Amore che salva.
In che modo questa celebrazione si inserisce nella sua visione pastorale dell’accoglienza inclusiva?
Questa celebrazione si innesta come un filo d’oro nella trama viva della mia visione pastorale: una Chiesa che non solo apre le porte, ma si fa essa stessa strada per andare incontro. L’accoglienza inclusiva non è per me un gesto episodico, ma una postura del cuore e dello sguardo: è il respiro stesso del Vangelo, che riconosce in ogni volto un fratello, in ogni storia una pagina sacra degna di essere letta con rispetto.
Celebrare con La Tenda di Gionata significa rendere visibile e concreto ciò che credo con fermezza: che la comunità cristiana custodisce una sorgente capace di dissetare ogni assetato di speranza, bendare ogni ferita di dignità, tendere la mano senza chiedere biglietti d’ingresso, senza alzare muri invisibili di esclusione.
Non si tratta dunque di “ospitare” qualcuno nella casa del Signore, ma di riconoscere che tutti ne sono già abitanti a pieno diritto. L’Eucaristia, centro di questa celebrazione, diventa così non il premio riservato ai pochi, ma il pane di comunione che ricostituisce la famiglia umana dispersa. In questo segno c’è la profezia di una Chiesa che vive non per custodire un tempio, ma per essere tempio vivente: dove ogni pietra è un volto, ogni colonna è una storia, e ogni porta è aperta verso l’infinito abbraccio di Dio.
In che modo ritiene che questo evento possa costituire un segnale forte e chiaro di cambiamento, già presente, di per sé – e a più riprese – nel messaggio di Gesù, in relazione all’amore fraterno, alla vita evangelica che non esclude nessuno, e alla Misericordia che Dio dona a tutti, senza eccezioni?
Un messaggio di un amore mai condizionato da appartenenze o giudizi ma, piuttosto, come invito a riconoscere, in ogni persona – specialmente nelle più fragili e marginalizzate, il volto stesso di Cristo?
Questo evento, nella sua essenza più profonda, è come una campana che suona a distesa nel silenzio assordante delle esclusioni: un segnale limpido, forte e irreversibile che ci ricorda come il Vangelo non sia un manifesto per pochi eletti, ma una lettera d’amore indirizzata all’intera famiglia umana. Gesù, nel suo andare instancabile tra le strade polverose della Galilea, ha abbattuto ogni muro di appartenenza, ha curato ferite senza chiedere credenziali, ha seduto alla tavola di peccatori e stranieri, mostrando che l’amore del Padre non conosce frontiere né condizioni.
Questa celebrazione si pone dunque nella scia luminosa di quel gesto originario: annunciare, con la lingua ardente dei segni concreti, che la Misericordia divina è un fiume che scorre verso tutti, e che nessuna diga umana può arrestare. Accogliere i più fragili, i più marginalizzati, non è un atto di benevolenza facoltativa, ma una dichiarazione di identità ecclesiale: se la Chiesa non abbraccia questi figli, non è la Chiesa del Vangelo.
In ciascun volto rigato di lacrime, in ogni occhiata implorante un po’ di ascolto, ritroviamo il riflesso stesso di Cristo, a volte nascosto sotto veli di dolore, ma sempre vivo nella sua dignità inviolabile.
Questo evento, quindi, non si limita a “parlare” di amore fraterno — lo rende visibile, palpabile, innegabile. È un invito, dolce ma potente, a lasciare che le nostre mani imitino quelle di Cristo, che non hanno mai respinto chi si avvicinava, e che anzi si sono allungate fino a toccare le piaghe del mondo per trasformarle in feritoie di grazia. E così, ancora una volta, il messaggio è chiaro: nel cuore di Dio le periferie diventano il centro perché ci sono soltanto figli amati. E quando la Chiesa si ricorda di questo, il cielo si apre davvero sulla terra.
Monsignore, senza dare per scontato che ci legge ne conosca l’importanza, vorremmo fare un passaggio sul ruolo del Sinodo all’interno della Chiesa cattolica. Il Sinodo, che contiene nel suo senso più intrinseco il significato di “cammino insieme” è un’assemblea di Vescovi provenienti da tutto il mondo, convocata dal Papa per offrire la possibilità di ascoltare diverse esperienze, culture e sfide della Chiesa universale, per poi discernere, insieme, le strade migliori da seguire.
Quale contributo ritiene abbia avuto, quest’anno, il Sinodo italiano nel promuovere una maggiore attenzione e sensibilità verso l’inclusione di tutte le persone, compresa la comunità LGBT+, all’interno della vita della Chiesa cattolica? Non ritiene anacronistico che se ne debba ancora parlare, essendo, in primis, il messaggio evangelico, già per sua natura, promotore di concetti quali uguaglianza, libertà, rispetto, umanità, giustizia e amore?
Il Sinodo della Chiesa italiana di questi anni è stato, a mio avviso, come un crocevia di sentieri nei quali l’intera comunità dei fedeli ha raccolto le voci, le inquietudini e le speranze del Popolo di Dio: una Chiesa che si è chinata per udire anche il sussurro degli esclusi. “Camminare insieme” non è mera espressione retorica, ma gesto profetico, volontà di ascolto autentico di tutte le diversità che abitano la nostra comunità ecclesiale.
Nella trama del Sinodo, la questione dell’inclusione – e in particolare dell’accoglienza delle persone LGBT+ – ha trovato uno spazio decisamente più ampio rispetto al passato: sono emerse proposte concrete, come l’istituzione di una giornata nazionale di preghiera sull’inclusione, la richiesta di reti di protezione e di campagne di sensibilizzazione contro discriminazioni e “terapie” dannose e, soprattutto, il passaggio da una pastorale “per” a una pastorale “con” le persone LGBT+, segno di una nuova consapevolezza ecclesiale.
Certo, il Sinodo non è stato esente da tensioni e resistenze: si è discusso animatamente, il confronto non è mancato, e il documento conclusivo ha rispecchiato sia i progressi, sia i limiti di un cambiamento ancora in atto. Tuttavia, quel che più conta è il soffio dello Spirito che ha smosso le acque, ricordando a tutti che la sinodalità autentica non può eludere la questione della dignità inviolabile di ogni persona, la chiamata evangelica ad abbattere ogni barriera.
La presenza di voci martellanti, soprattutto dalla base della Chiesa, che chiedono ascolto, uguaglianza e accoglienza universale — anche per le persone LGBT+ e per i loro genitori — dimostra che il seme evangelico della giustizia e dell’amore gratuito germoglia là dove la comunità si apre senza paura.
È anacronistico, dici bene, dover ancora ribadire ciò che il Vangelo proclama da sempre: la pari dignità, la libertà, il rispetto e la misericordia sono l’alfabeto nativo della vita cristiana. Eppure, il cammino della Chiesa, mentre si scontra coi limiti umani, è chiamato ogni giorno a rinnovare la sua alleanza con gli ultimi e con i feriti dalla storia.
Il Sinodo di quest’anno, pur nella fatica e nelle contraddizioni, è stato un invito a ricominciare: a diventare realmente quella tenda che accoglie senza condizioni, dove la differenza non sia tollerata con paternalismo, ma riconosciuta come dono, e in cui la Chiesa ritrovi la sua vera giovinezza nel Vangelo vissuto, non solo predicato.
Quando la Chiesa si fa spazio di ascolto, si rivela in trasparenza il Volto misericordioso di Cristo, che non ha mai smesso di chiamare ognuno per nome, abbracciando la misteriosa bellezza di ogni cuore umano capace di donazione e altruismo: questo ci basta per riconoscere che lo Spirito soffia dove vuole.
Mancano poco più di 20 giorni al Pellegrinaggio Giubilare de La tenda di Gionata con i cristiani LGBT+, i loro familiari e gli operatori pastorali che gli accompagnano.
Ci stiamo preparando. Ognuno a modo suo. Ma una cosa è certa: ci stiamo arrivando insieme: con le paure, le domande, i desideri. Con la voglia di esserci, per la prima volta o per sempre. È più di un evento. È più di un viaggio. È casa.
* Sara Spera, nata nel 1986, è laureata in Scienze della Comunicazione – indirizzo Mass Media – all’Università degli Studi di Siena. Da oltre nove anni lavora nel settore della comunicazione, occupandosi di realizzare contenuti redazionali specialistici, tenere relazioni istituzionali ed eventi per il mondo dell’impresa e del terzo settore.
La sua esperienza spazia da tematiche come disabilità, edilizia pubblica, associazionismo, tutela dei minori, ambiente, sanità e legalità. Attualmente ricopre il ruolo di Ufficio Stampa per una nota azienda italiana attiva nel settore impiantistico con sede a Novara. Crede fermamente, infatti, che ogni realtà, produttiva o associativa che sia, se consapevole del proprio ruolo nella comunità, possa contribuire in modo concreto a valorizzare ogni persona.
> Info ufficiali sul pellegrinaggio giubilare de “La Tenda di Gionata e altre associazioni”

