Né etero, né queer. Non ha senso definirci credenti in Dio se odiamo il suo popolo
Testimonianza della studentessa di teologia Jessica Tezen dell’Union Theological Seminary di New York (Stati Uniti) pubblicata dal progetto Queer Faith il 12 marzo 2019, liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
Essere pastora, per me, significa essere un’estensione e un riflesso di Dio di fronte agli altri. Il modo in cui vivo la mia vita, il modo in cui rifletto Dio e tratto il prossimo può stimolare la gente a conoscere Dio, oppure può indurre ad allontanarsene. Personalmente vorrei aiutare a tirare fuori Dio dalla scatola in cui molta gente l’ha ficcato. Vorrei che la gente facesse esperienza di un Dio che è mosso dall’amore e non dalla sete di potere. Vorrei che la gente desiderasse fare l’esperienza di un Dio che promuove la diversità e combatte contro l’oppressione, specialmente quella rivolta contro le persone LGBTQ+.
Per me, identificarmi come lesbica e seguace di Gesù significa tornare alla mia comunità LGBTQ+ e dirle che la gente che sta nelle chiese non ha capito niente fino ad ora. Vorrei essere una testimonianza vivente, di fronte alla mia comunità LGBTQ+, che Dio ci ama e che noi siamo capaci di amare Dio, le nostre partner, le nostre identità.
Se continuiamo a credere che Dio abbia delle preferenze, stiamo andando contro l’Evangelo di Gesù. Non è realistico definirci credenti in Dio e odiare il popolo che Dio stesso ha creato. Il ministero, per me, non è né queer né etero, il ministero per me consiste nell’amare Dio e il prossimo, e questo è ciò che sono stata chiamata a fare da Dio. L’amore ci porterà più avanti, e fino a che tutta l’umanità non sarà in grado di comprenderlo, ci sarà sempre del lavoro da fare.
Testo originale: JESSICA TEZEN | M.DIV. STUDENT