Nella diocesi di Torino per i gay credenti ”accoglienza senza pregiudizi”
Trascrizione* dell’intervento di Mons. Ermis Segatti (Responsabile della cultura della Diocesi di Torino) pronunciato nella trasmissione “Otto e Mezzo” andata in onda su la7 il 21 Novembre 2007
La vicenda di Alberto, il ragazzo che è stato allontanato dal coro della parrocchia perchè gay, è stata al centro di una puntata del programma televisivo “Otto e mezzo” di Giuliano Ferrara in onda su La7. Tra le cose che sono state dette trascriviamo l’intervento fatto da don Ermis Segatti, Responsabile della Cultura della Diocesi di Torino, che ha raccontato in diretta tv il cammino di accoglienza che la Diocesi di Torino sta costruendo con e per i credenti omosessuali perchè “su questi argomenti così importanti per le persone e per i rapporti all’interno della comunità, non viga l’omertà e quello che sarebbe peggio una discriminazione indebita in nome, soprattutto, di Gesù Cristo“.
Ritanna Armeni: Lei, uomo di chiesa, come giudica l’atteggiamento di don Paolino (n.d.r. il parrocco che ha invitato Alberto a lasciare il coro parrocchiale), che non c’è e non si può difendere, e anche quello di Alberto, […] che cosa pensa di questa vicenda? […]
Don Segatti: Beh, intanto io vorrei, se possibile, togliermi dal giudicare un’altra realtà, mi piacerebbe piuttosto parlare di ciò che siamo riusciti a fare noi (n.d.r. la diocesi di torino), perché la realtà che io dovrei giudicare richiederebbe una conoscenza ben superiore a quella che ho potuto percepire dal dibattito che finora si è svolto.
E poi ritengo che ciò che forse può essere utile in questa circostanza è il cammino che abbiamo percorso qui a Torino. Difatti, anche Alberto si era appellato a ciò. Vorrei rispondere a lui direttamente.
Alberto: Grazie.
Don Segatti: Intanto devo dire che quando ci fu il Torino Pride in preparazione, per il 2006, un gruppo di omosessuali che si riteneva coerentemente legato alla tradizione cattolica e ad una pratica non meramente formale della propria fede, richiesero esplicitamente un contatto con il nostro vescovo, volendo proporre direttamente, frontalmente, precisamente la questione del loro essere credenti e omosessuali, però non in incognito ma in esplicito della loro fede e della loro condizione. Il termine esatto con cui la tradizione cattolica, sia pure molto… diciamo con lungo tragitto nella storia, è arrivata a dire l’omosessualità sotto la voce “condizione” dice già molto rispetto al fatto che non è considerata né peccato – qualora non ci siano dei fatti peccaminosi collegati ad essa, né più né meno che come per l’eterosessualità – né tantomeno, diciamo così, quasi una malattia.
Presupponendo questo, che cosa si è fatto in quella circostanza? Questo gruppo ha chiesto apertamente il dialogo con il vescovo, e il vescovo ha accettato questa possibilità di dialogo, e ha detto: bene, delegò due persone a fare da mediatori per la diocesi. E ha scelto il responsabile della Pastorale della Famiglia, e ha scelto me, che allora (e ancora ora) sono il referente per la Cultura. E ha detto: fate da intermediari, riferitemi e comunicate.
E così è nata tutta una serie di incontri e di confronti che sono stati all’insegna di un reciproco ascolto e di un reciproco rispetto, proprio sempre partendo dal presupposto che nella tradizione cristiana, per quel tanto che si è riusciti ad approdarvi, dopo molte traversie lungo i secoli, oggi, la condizione dell’omosessuale non è né peccato (ripeto: a meno che non si congiunga con fatti peccaminosi), né una malattia, a meno che non abbia una vera malattia, aggiunta.
E allora, dopo questi colloqui preliminari, si è arrivati ad una conclusione, che ritengo molto interessante e che è tutt’ora in corso di… diciamo, se si può usare questa parola forse inadatta, di “sperimentazione”, cioè di “pratica”.
Si è detto, dopo avere chiarito alcune delle realtà fondamentali, cioè che l’omosessuale deve essere considerato innanzitutto come persona e che il rapporto con Dio vede innanzitutto la persona e non le inclinazioni sessuali, come se fossero l’atto determinante per concepire tutta quanta la personalità e quasi lo schermo invalicabile attraverso cui si legge tutto; in realtà si legge attraverso la persona, l’omosessualità.
E allora, si è detto, ad esempio l’omosessuale, come persona, ha diritto ad essere riconosciuto nella sua dignità e a vivere pienamente, come persona, la propria sessualità, quella che lui ha, e con gli stessi obblighi di serietà con cui l’eterosessualità è portata a vivere la propria. E quindi, il discorso del viverlo con tutte le dimensioni dell’amore che la tradizione cristiana ha elaborato attorno alla responsabilità della propria vita.
Dopodiché si è passati ad una seconda fase, che è tutt’ora in corso, ed è quella di prendersi cura di come, a partire anche dall’esperienza offerta da questi omosessuali – che continuano ad essere credenti e vivono anche una vita di esperienza religiosa che cercano di alimentare fra di loro e anche nelle varie comunità – si è detto, dobbiamo cercare di formare le nostre comunità a recepire in modo cristianamente degno coloro che vivono questa condizione, in modo che siano non emarginati indebitamente, meno che meno, ma che non siano anche fraintesi, e in qualche modo loro stessi non siano in una condizione tale da dover creare poi essi stessi circostanze di fraintendimento. Questa è la seconda fase.
E la terza e ultima, quella che è in via di elaborazione, la creazione di un vademecum, predisposto per iscritto, con cui si portano avanti indicazioni e suggerimenti di comportamenti per le comunità che abbiano difronte a sé degli omosessuali, ma anche che tengano conto che ci possono essere, poiché le statistiche dicono che l’omosessualità ha una percentuale che oscilla dal 4 – 5 – 6 per cento, a seconda dei territori, e quindi che tocchino esplicitamente, ma con la dovuta accortezza e sensibilità spirituale, quest’argomento, in modo che non viga, su questi argomenti così importanti per le persone e per i rapporti all’interno della comunità, non viga l’omertà e quello che sarebbe peggio una discriminazione indebita in nome, soprattutto, di Gesù Cristo.
Giuliano Ferrara: quindi, se ho capito bene, don Don Segatti, lei dice: è una condizione e non un peccato in sé
Don Segatti: sì questo è il dato.
Giuliano Ferrara: Benissimo. Poi lei dice anche: un dialogo è necessario; soprattutto la persona esiste e ha una sua dignità che la Chiesa riconosce, molto prima e in modo molto più radicale che non di quanto sia importante la sua attitudine sessuale, e per quanto riguarda l’omosessualità lei dice è importante che questa persona non fraintenda e non si lasci fraintendere, cioè… quest’ultima parte non l’ho capita bene.
Cioè, lei dice, per esempio, il modello di comportamento di un giovane di 21 anni, allegro, divertito dalla propria condizione, orgoglioso perfino, che va in televisione, che la propaganda in modo polemico, dicendo “rompere le barriere”, “rompere i tabù”, “riconoscerla come normale, come ordinaria, come una scelta come un’altra”, questa cosa qui, secondo lei, genera fraintendimenti? Può essere considerata scandalosa? Può irritare un uomo di chiesa? Può portare scompiglio in una parrocchia, in una comunità ispirata a valori cattolici?
Oppure anche questo comportamento – fatto salvo tutto il resto, condizione che non è in sé un peccato, accoglienza, dignità della persona che va molto al di là… – questo comportamento, cioè non l’omosessuale, ma la cultura gay dichiarata, militante, propagandata, quella secondo lei è equivoca o no?
Don Segatti: direi che, tra i sistemi che lei ha evocato con la parola “propaganda dell’omosessualtà”, “l’ostentazione dell’omosessualità”, certamente io distinguerei ancora molto nettamente, in base anche ad un’esperienza – purtroppo a volte anche piuttosto dolorosa nei tempi non solo recenti, ma anche recenti – distinguerei quei comportamenti di ostentazione dell’omosessualità che sono… diciamo… possono avere anche le loro ragioni magari polemiche, ma sono magari oltraggiosi, e sono avvilenti anche alla dignità di coloro che sono eterosessuali, e via discorrendo.
Ci sono queste manifestazioni, di tanto in tanto, da cui io vorrei assolutamente distinguere la posizione che, mi pare, abbia assunto Alberto [il quale, nel frattempo, scuote la testa, ndt]. Alberto mi pare che abbia assunto la posizione di dire pubblicamente e apertamente… vedo che Alberto scuote la testa, ma io mi riferisco ad alcune manifestazioni dei Gay Pride, su cui avrei parecchie cose da dire, e piuttosto serie, e le hanno dette anche alcuni gay che hanno partecipato a queste elaborazioni che stavo dicendo, perché lì veramente siamo outside.
Ma quando si tratta, invece, delle modalità con cui si ritiene di manifestare, di rompere il ghiaccio – se così si può dire – dell’opinione pubblica su un argomento del genere, quanto a ciò il dosaggio non spetta a me deciderlo, nel caso specifico di Alberto è lui che deve valutare se ciò che lui ha fatto sia giovevole alla comunità…
Anzi, voglio leggergli una conclusione che ha tratto nel vademecum il nostro gruppo; che secondo me dice anche una responsabilità che si deve prendere chi è in questa condizione anche verso coloro che trovano difficoltà a comprendere la condizione gay, e questo è un atteggiamento di responsabilità verso le comunità che dovrebbe essere tipicamente cristiano. Tocca a lui decidere se ciò che lui ha fatto è veramente costruttivo per la sua comunità, o se ha dei lati che in qualche modo possono lasciare perplessi […]
Per approfondire: Il video della trasmissione “Otto e Mezzo” andata in onda su la7 il 21 Novembre 2007