Omosessuali in Paradiso. Percorsi danteschi tra letteratura e teologia: conclusioni
Testo di Fr. Luca Minuto, OFMCap, parte terza
Non mi piace, l’ho ripetuto più volte, far dire a Dante quello che non avrebbe mai pensato, però non posso non osservare la sua incredibile apertura di pensiero.
Una premessa doverosa: nella mentalità medievale l’omosessualità non era e come da noi, figli del romanticismo e della rivoluzione sessantottina, noi, per i quali il benessere della coppia ha una rilevanza tale da conferire pari dignità a tutte le espressioni di amore.
Al tempo di Dante la coppia era vista quasi esclusivamente in termini procreativi, tant’è vero che l’amore inteso in senso poetico non si rivolgeva alla propria consorte (Dante è innamorato di Beatrice, che non è sua moglie).
La pratica omosessuale non solo non era finalizzata alla procreazione, ma ci si opponeva. Veniva pertanto vista come un vizio, una soddisfazione della carne. Per questo veniva chiamata con il nome della pratica sessuale, cioè sodomia.
Abbiamo visto come il canto infernale di Brunetto Latini segni quasi una pausa nel linguaggio duro dell’Ade, per lasciare posto alla riconoscenza e agli affetti. L’onta c’è (la vergogna di cui parla il Purgatorio), ma non cancella la grandezza della figura, né i legami affettivi.
Nella parte più alta del Purgatorio sono purificati tutti coloro che si sono lasciati andare alla lussuria, hanno amato la creatura più o al posto del suo Creatore. La punizione è la stessa, sebbene divisi in due schiere. L’amore, quando si lascia prendere dall’irrazionalità, imbestialisce, non lascia più posto al rispetto umano, abbandona l’immagine di Dio che è iscritta nella Creazione.
Così l’amore può identificarsi con ricerca di sesso, di soddisfazione del proprio egoismo. L’avere dei figli viene confuso con un diritto dei genitori e non appare come il frutto di una comunione di vita, di un donarsi reciproco generativo. I social media, da strumento relazionale diventano luoghi di mercimonio del corpo. Questi sono solo alcuni esempi di modalità in cui il mondo contemporaneo traduce il peccato purificato nella cornice settima del monte del Purgatorio dantesco.
Dante sembra richiamarci alla necessità di purificare l’amore da queste storture perché, una volta purificato, si apra al suo compimento, cioè al Paradiso.
Detto per i cristiani si tratta di vivere ogni relazione amorosa, nella sequela di Cristo, come viene espresso nel Vangelo secondo Luca:
se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la donna, i figli i fratelli e le sorelle e perfino la sua stessa vita, non può essere mio discepolo (Lc 14,26, traduzione mia).
In questi termini così estremi Gesù significa la radicalità di un discepolato che trova il suo compimento nell’offerta della vita, secondo lo stile dell’Ultima Cena: “questo è il mio corpo, che è dato per voi” (Lc 22,19). Ogni relazione che il discepolo vive è chiamata a entrare nella dinamica del dono di sé.
In questa capacità di donarsi interamente come ha fatto Gesù risiede la promessa del Padre, promessa la cui garanzia di mantenimento che si è manifestata nel grido della Resurrezione, quel grido che all’alba di una domenica mattina ha squarciato le fondamenta della terra: “Non è qui, è risorto”(Lc 24,6).
Nel corso della storia lo Spirito Santo ha plasmato, grazie alla memoria di Gesù, la fede di uomini e donne che hanno costruito la propria vita di relazione nel dono di sé stessi talvolta fino all’eroismo del martirio.
Possano anche le nostre relazioni di qualsivoglia genere e natura essere memoria di quell’amore più grande che si offrì una volta per sempre sulla croce per essere l’Emmanuele, il Dio con noi.
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