Omosessualità e genitorialità. L’identità omosessuale
Testo di Alessandra Bialetti*, pedagogista sociale e Consulente della coppia e della famiglia di Roma, tratto dalla sua tesi di Baccalaureato su “Genitori sempre. Omosessualità e genitorialità”, Pontificia Università Salesiana, Facoltà Scienze dell’educazione e della formazione salesiana – Facoltà di Scienze dell’Educazione, Corso di Pedagogia Sociale, Roma, anno accademico 2012-2013, paragrafo 2.2
Come è stato sottolineato l’identità è un processo e non un risultato statico. L’identità omosessuale non è congenita, si costruisce a poco a poco e cambia a seconda del contesto e del momento di vita. Si parlerà spesso di “persona omosessuale” e non semplicemente di omosessuale in quanto questo non è un tratto distintivo e caratterizzante del soggetto, ciò che conta è la centralità della persona, la sua unicità e originalità che comprende anche il proprio orientamento sessuale.
La persona omosessuale vive tutta una serie di difficoltà che la pone in una posizione diversa rispetto all’eterosessuale in quanto abituata a nascondere una parte essenziale di sé, dei propri bisogni, desideri, emozioni mostrando spesso solo un aspetto superficiale.[1] L’identità, quindi, non si ferma all’anatomia o ad una questione ormonale ma si traduce attraverso sentimenti, modi di pensare e vedere il mondo, gusti, atteggiamenti e comportamenti.[2]
L’omosessualità non è quindi solo l’interesse erotico per le persone dello stesso sesso, ma un’identità sociale, verso la quale si sviluppa un senso di appartenenza con connotazione affettive, cognitive e valoriali. L’identità omosessuale implica la scelta di uno stile di vita, di vivere pubblicamente ciò che si tende a nascondere, di affrontare la discriminazione sociale invece che subirla. Per realizzare tutto questo la persona omosessuale passa necessariamente attraverso varie tappe per giungere a vivere apertamente il proprio orientamento con libertà e dignità.[3]
Il processo di integrazione della dimensione interna ed esterna, soggettiva ed oggettiva, è molto lento: all’inizio l’omosessuale affronta se stesso, le sue paure, i suoi desideri, pensieri ed emozioni, poi la società, quando si farà conoscere come tale accettando e vivendo pubblicamente la propria omosessualità. La costruzione dell’identità gay e lesbica dura una quindicina d’anni in media ed implica un lungo periodo di confusione ed incertezza ed un costo emotivo molto elevato.[4]
L’identità implica un autoriconoscimento del significato che il comportamento e l’orientamento sessuale hanno per l’individuo; pervenire alla consapevolezza di avere sentimenti omosessuali indica che l’identità è stata raggiunta e che si accetta la propria diversità nei termini dell’essere attratti da persone dello stesso sesso e di progettare una vita in tal senso.[5]
I processi di costruzione dell’identità gay e lesbica si basano fondamentalmente su due approcci: i modelli stadiali e i modelli dell’adattamento. I primi studiano il processo attraverso il quale la persona arriva ad identificarsi come omosessuale sottolineando l’esistenza di vari stadi di formazione che, se superati, portano all’accettazione di sé fino alla fase finale dell’acquisizione della propria identità sessuale. Il limite di tale approccio risiede nel fatto che in realtà, nel comportamento sessuale, si verifica molta più variabilità e fluidità di comportamento di quanto la teoria tenti di spiegare: i percorsi possono essere diversi sia per genere, sia per tempi, sia per i contesti sociali e culturali in cui si sviluppano.
Questo concetto ci riporta alla visione di Bauman, il quale sostiene che anche la costruzione dell’identità nella società complessa ha acquisito carattere di maggiore fluidità. Inoltre il modello stadiale porta con sé il carattere della normatività ovvero presuppone che il soggetto si muova da uno stadio all’altro con coerenza fino alla fase della maturità lasciando presupporre che chi non raggiunge tale stadio sia da considerarsi immaturo.[6]
I modelli dell’adattamento studiano, invece, il processo psicosociale e le strategie adattive che una persona sviluppa in relazione ad un ambiente ostile e stigmatizzante. Si sostiene, infatti, che l’omosessuale per crescere debba far fronte ad un compito di sviluppo specifico che consiste nel definire se stesso in un contesto sociale altamente discriminatorio. La domanda di base, cui tale modello cerca di dare risposta, è come la persona omosessuale possa raggiungere uno stato di benessere nei propri contesti di appartenenza studiando l’effetto del mondo esterno sulla costruzione dell’identità.[7]
Entrambi gli approcci sottolineano la centralità del coming out, ovvero del processo di svelamento a se stessi e agli altri della propria identità omosessuale. Questo momento rappresenterebbe un fattore di benessere per la costruzione identitaria come anche avere atteggiamenti positivi verso la propria e l’altrui omosessualità. Ulteriori fattori protettivi sarebbero uno stile di attaccamento di tipo sicuro sviluppato nell’infanzia e un funzionamento psichico che non utilizzi meccanismi di difesa dissociativi che portino il soggetto a scindere il proprio sé o a proiettarlo in maniera persecutoria su altri.
Non agevola invece la costruzione di un sé autentico il percepirsi come appartenente ad una categoria sociale connotata negativamente, con ricadute negative sul processo di accettazione globale del sé e sul possibile successo scolastico o professionale.[8]
In ultimo si sottolinea quanto sia prezioso il contesto delle relazioni familiari nella formazione positiva dell’identità omosessuale. Fattori protettivi risultano essere un alto livello di istruzione dei genitori, l’appartenenza ad uno status socio-economico medio-alto, uno stile genitoriale non autoritario, un basso grado di omofobia. Al contrario, famiglie con valori rigidamente tradizionali, con un tipo di religiosità molto severa e giudicante, con una provenienza geografica meridionale e con una età anagrafica elevata, risultano meno supportive nel processo di formazione dell’identità.[9]
L’aver accettato la propria parte omosessuale risulta essere un fattore protettivo di grande importanza e rilevanza mentre il timore della visibilità come appartenente alla categoria omosessuale sfocia in una percezione negativa di sé come competente nel risolvere le questioni legate al proprio percorso di vita.[10]
____________
[1] Cfr. M. CASTAÑEDA, Comprendere l’omosessualità, p. 16.
[2] Cfr. ibidem, p. 50.
[3] Cfr. Ibidem, p. 52.
[4] Cfr. Ibidem, p. 62.
[5] Cfr. R. DEL FAVERO – M. PALOMBA, Identità diverse, p. 59.
[6] Cfr. C. CHIARI – L. BORGHI, Psicologia dell’omosessualità. Identità, relazioni familiari e sociali, p. 51.
[7] Cfr. Ibidem, p. 16.
[8] Cfr. Ibidem, p. 55.
[9] Cfr. C. CHIARI – L. BORGHI, Psicologia dell’omosessualità. Identità, relazioni familiari e sociali, p. 55.
[10] Cfr. Ibidem, p. 71.
* Alessandra Bialetti, vive e opera a Roma come Pedagogista Sociale e Consulente della coppia e della famiglia in vari progetti di diverse associazioni e realtà laiche e cattoliche. Il suo sito web è https://alessandrabialetti.wordpress.com/