Papa Leone XIV e i ponti da costruire dopo Francesco
Riflessioni di Alessandro Ludovico Previti
I giornali parlano di un Papa centrista. Il quotidiano italiano La Repubblica lo ha definito “cosmopolita”, sottolineando la sua esperienza pastorale in America Latina, Nord America ed Europa. Axios ha osservato che “non è né un guerriero culturale né un riformatore radicale”, descrivendolo come “empatico”, fermo e pacato.
“Centro” è una parola che tanto nasconde quanto rivela, e non dobbiamo temerla. Per chi, come noi, ha abitato a lungo i margini del discorso ecclesiale, persone LGBT+ credenti, famiglie che accompagnano i propri figli, operatori pastorali che ogni giorno vivono contraddizioni, il centro non è un luogo, ma una tensione: uno spazio che si apre solo quando altri fanno posto.
Papa Leone XIV ha aperto il suo pontificato con un appello alla “pace disarmata” e alla costruzione di ponti. Non è la prima volta che si esprime così. In scritti e interviste precedenti, ha messo in guardia contro la tentazione di usare l’identità, qualsiasi identità, come un’arma, e ha lamentato che in alcuni luoghi l’espressione della fede cristiana sia accolta con sospetto o vergogna.
Parole che, a prima vista, possono sembrare lontane dalle questioni LGBT+. Eppure, per esperienza, il dialogo è spesso iniziato proprio da questi passaggi: quando anche la Chiesa si mostra vulnerabile, quando persino chi veniva considerato potente condivide la propria esperienza di esclusione.
Molti cristiani LGBT+ hanno vissuto l’esclusione non solo da parte della Chiesa, ma anche di alcune organizzazioni LGBT+. Sebbene formalmente aperte a tutti, certe realtà assumono toni anti-religiosi appena si abbassano le tapparelle. La fede viene trattata non come risorsa viva, ma come ostacolo da eliminare.
Questo ha ferito chi vive entrambe le identità con integrità, e chi cerca una casa che non chieda di rinunciare né alla fede né a se stessi. Alcune voci nel discorso LGBT+ di oggi svalutano il valore della famiglia, non tanto come scelta personale, ma come qualcosa da superare per tutti, una trasformazione sociale generale. E così come alcune voci omofobe negano la dignità delle persone LGBT+, così, quando un gruppo cerca di cancellare ciò che è caro ad altri, il dialogo non solo si fa difficile, ma impossibile.
Mi considero un mediatore, una figura che attraversa ponti: mi muovo tra reti diverse, riconosciuto per la presenza costante e i risultati concreti, più che per una posizione definita, promuovendo il lavoro di rete tra gruppi LGBT+ laici e di fede in diversi paesi.
È un percorso che richiede dialogo, compromesso, pazienza e chiarezza, spesso segnato dalla pressione di schierarsi completamente con una parte o con l’altra, di un allineamento totale con un pensiero o un altro.
Tra i gruppi con cui lavoro stabilmente ci sono il Global Network of Rainbow Catholics (GNRC) e La Tenda di Gionata, animati da persone che vivono il dialogo come principio. Camminare in equilibrio, riconoscendo la democrazia come valore fondamentale e scegliendo di fare da ponte tra voci diverse, è impegnativo.
Significa ascoltare fino in fondo, mediare tensioni, accettare di essere messi in discussione da tutti i lati. Non urliamo per imporci. Ci sediamo, raccontiamo le nostre storie. Con costanza, con pazienza.
Qualcuno dice che è un metodo troppo lento; non ci illudiamo di ottenere riconoscimenti rapidi, ma perseverando così abbiamo visto aprire porte che forza e aggressione avrebbero chiuso: in ambiti di fede e in contesti laici, tra cerchie conservatrici e progressive, fino ai numerosi incontri con sacerdoti, vescovi, e con Papa Francesco.
Lo stesso vale per il mio percorso come presidente di Polifamiglie, un’associazione che riunisce persone che vivono forme familiari poliamorose fondate sull’impegno e valori tradizionali; con sorpresa di molti, Papa Francesco ha accolto con attenzione le nostre testimonianze.
Essere disposti a mettersi in discussione sta al cuore di tutto. Gridare permette di dire qualsiasi cosa, sperando che il volume basti a mettere a tacere chi ascolta. Dialogare invece significa sia parlare che ascoltare, essere aperti a cambiare e a lasciarsi cambiare. Significa che nessuno può controllare pienamente l’esito; e che il risultato si discosta spesso da ciò che ciascuno sperava all’inizio, eppure tuttavia non è un compromesso al ribasso. Non si tratta di teoria sul dialogo o di consigli tratti da manuale. È la forza del dialogo, vissuta e misurata nei suoi frutti.
Credo che, se vogliamo davvero essere nella Chiesa Cattolica, dobbiamo A camminare insieme; non pretendendo che siano le nostre voci a dettare il passo, ma fidandoci che i passi condivisi siano più forti delle dichiarazioni solitarie.
Abbiamo visto che questo metodo porta frutto. E se vogliamo costruire un futuro in cui le persone possano vivere le proprie relazioni con dignità, dobbiamo dialogare con le comunità di fede. Perché la fede fa parte dell’esperienza vissuta, e anche questa parte chiede dignità.
In Papa Leone XIV non riverso aspettative, né sospetti. Se davvero si pone al centro, allora quel centro deve restare permeabile, in ascolto di tutte le parti: la destra e la sinistra, il chiostro e la strada, il monastero e la cucina.
Continuiamo a camminare. E continueremo a parlare, non a gridare. Perché ascoltare è l’atto più rivoluzionario. E il dialogo è un atto di fede.