Per i cattolici LGBTQ+ il tempo del Vangelo è ora, “non nel prossimo futuro”
Riflessione di Ish Ruiz*, pubblicata su National Catholic Reporter (Stati Uniti) il 24 settembre 2025. Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata.
La mia vita spirituale, come quella di tanti altri cattolici LGBTQ+, è una battaglia continua. È faticoso dover sempre lottare per avere spazio nella chiesa cattolica così come siamo, in modo autentico.
Per questo, quando ho letto le parole di padre James Martin dopo la sua udienza con papa Leone XIV, ho sentito una ventata di speranza. Il papa aveva detto che voleva continuare lo stile pastorale di papa Francesco verso le persone LGBTQ+.
Non era una notizia da poco. Francesco, con il suo modo di accogliere, con il suo mettere da parte la rigidità dottrinale, con il sostegno a Fiducia Supplicans e l’invito a una chiesa sinodale, aveva aperto un cammino importante. Non perfetto, ma reale.
Poi, pochi giorni fa, è arrivata l’intervista a Leone XIV con la giornalista Elise Ann Allen. Il papa ha detto di volere una chiesa aperta a tutti, ma ha anche aggiunto che è “altamente improbabile, certamente non nel prossimo futuro” che la dottrina della chiesa cattolica sulla sessualità cambi.
Quelle parole hanno fatto male.
Perché per quanto possiamo dire forte “a tutti, tutti, tutti”, se si rimanda una riforma dottrinale si continua a escluderci. Vuol dire che possiamo essere visti, ma non abbracciati davvero. Che possiamo entrare, ma non essere celebrati. Che ci sarà sempre una condizione, un “sì, però”.
È come ricevere briciole quando ciò che desideriamo è il pane intero della comunione. Non vogliamo solo varcare la soglia della chiesa: vogliamo che il nostro amore e le nostre vite siano riconosciuti come parte viva della storia cattolica.
Se la chiesa cattolica prende sul serio la sinodalità, allora deve ascoltare le nostre vite per lasciarsi cambiare. Non basta una bella chiacchierata se poi non segue nulla. Non basta dire “aspettiamo che i tempi siano maturi”. La vera sinodalità ascolta per agire, per trasformarsi grazie a chi è ai margini. Altrimenti è solo una caricatura dello Spirito.
Dire “siete i benvenuti, ma la dottrina non cambia” è come aprire la porta di casa e dire subito dopo “non spostare i mobili”. Restiamo ospiti, mai famiglia. Tollerati, ma non riconosciuti come portatori di saggezza.
E questo non è neutro: fa male. Le ricerche dicono che le persone LGBTQ+, soprattutto i giovani, soffrono di più di depressione, suicidio, solitudine e rifiuto familiare. E spesso la religione è la causa che giustifica questi rifiuti.
La posizione della chiesa cattolica, anche detta con dolcezza, alimenta questa sofferenza. E quando i responsabili esitano o rimandano, siamo noi a pagarne il prezzo con la nostra vita e il nostro benessere.
Così restiamo in attesa. Aspettiamo che la chiesa veda ciò che sappiamo già: che i nostri amori sono santi, che le nostre vite portano frutto e che la nostra dignità è dono di Dio.
E mentre aspettiamo, non smettiamo di esserci. Continuiamo a pregare, a servire, a costruire comunità, anche con le ferite che portiamo addosso. La nostra perseveranza è la prova che lo Spirito vive in noi, anche se l’istituzione fa fatica a riconoscerlo.
La nostra speranza non sta nell’agenda di un papa, ma nella promessa di Dio. Crediamo che Colui che ci ha creati nell’amore non ci abbandonerà. Ma questo non toglie nulla alla responsabilità della chiesa cattolica: tocca a lei aprire davvero le porte, trovare il coraggio di cambiare e avviare quelle riforme che il Vangelo richiede. E tutto questo dovrebbe partire proprio da papa Leone XIV.
Gesù non ha mai detto al lebbroso: “Ti guarirò, ma non subito”. Non ha detto alla donna che perdeva sangue: “La tua sofferenza conta, ma prima devo chiedere ai farisei”. Non ha detto a Bartimeo: “La tua cecità disturba chi ci vede”. Non ha detto alla Samaritana: “Puoi bere, ma stai zitta così non scandalizzi nessuno”. Gesù si è mosso con urgenza verso chi era ai margini.
La chiesa cattolica deve fare lo stesso. Dire che siamo benvenuti ma che la nostra identità e il nostro amore restano peccato vuol dire barattare la dignità umana con la tranquillità dell’istituzione. Vuol dire scegliere la paura invece del coraggio.
Noi cattolici LGBTQ+ non vogliamo un angolino. Vogliamo che la chiesa riconosca la nostra dignità e ci lasci prendere il posto che ci spetta nel popolo di Dio.
La sinodalità chiede di spostare i mobili, di ridisporre la casa di Dio perché nessuno resti ai margini. E il Vangelo ci spinge ad agire adesso, non domani.
“Non nel prossimo futuro” non può essere la risposta della chiesa cattolica. Perché il tempo del Vangelo è sempre l’oggi.
*Ish Ruiz è professore associato di Teologia Queer e Latinoamericana alla Pacific School of Religion di Berkeley, California, e autore del volume LGBTQ+ Educators in Catholic Schools: Embracing Synodality, Inclusivity, and Justice (Bloomsbury, 2023).
Testo originale: Not in the near future’ is not good enough for LGBTQ+ Catholics

