Per i gay musulmani l’armadio del nascondimento ha sette chiavi
Articolo di Miguel Ángel Medina tratto da El Pais (Spagna), 27 febbraio 2012, liberamente tradotto da Eliana Ronzitti
L’omosessualità è un tabù nella maggior parte dei paesi di tradizione islamica: i paesi vicini Algeria o Marocco, per esempio, classificano come reato gli “atti omosessuali” e i cinque stati che condannano a morte i gay sono musulmani.
In Spagna, dove la maggior parte di questa comunità è costituita da immigrati di prima o seconda generazione, questi pregiudizi continuano ad esistere e, in molti casi, spingono queste persone a negare la propria indentità sessuale e a nasconderla alle proprie famiglie.
Però anche le voci che rivendicano la compatibilità fra il Corano e la realtà omosessuale cominciano a farsi sentire. “Quando sappiamo che qualcuno è gay, lo allontaniamo e smettiamo di parlargli”, ammette il marocchino Achraf el Hadri, di 27 anni, residente a Madrid. La presidentessa dell’Unione delle Donne Musulmane Spagnole (UMME, Unión de Mujeres Musulmanas de España), Laure Rodríguez, va oltre: “Esiste una lesbofobia e un’omofobia generalizzata all’interno delle comunità musulmane del nostro paese”.
“Le scuole di giurisprudenza islamica hanno sempre considerato la sodomia come qualcosa di proibito”, conferma Abdennur Prado, presidente della Giunta Islamica Catalana (JIC, Junta Islámica Catalana). In questo contesto, i musulmani che pensano a quello che comunemente si chiama “uscire dall’armadio”, di solito affrontano un processo molto complesso.
Lo spiega Manuel Ródenas, coautore dello studio sociologico e giuridico su omosessualità e mondo islamico (Cogam, 2007): “La caratteristica fondamentale degli omosessuali musulmani è che vivono in due mondi ben distinti: da un lato le loro famiglie che non sanno niente e dall’altro le loro amicizie. Sono mondi che non si incontrano mai, né si mischiano”.
Lola Martín, coautrice dello studio, riflette sul fatto che queste persone vivono in un “doppio armadio” e sottolinea che alcuni di loro cercano di nascondere che provengono da paesi arabi. La presidentessa della UMME sta portando avanti uno studio sulle donne musulmane che vivono in Spagna, con le quali è in contatto attraverso le reti sociali.
“Il punto in comune di tutte le lesbiche che ho intervistato è l’aver vissuto un processo lungo, traumatico e doloroso per districarsi fra la loro religione e la loro sessualità o per tentare di viverle in maniera equilibrata”, racconta la Rodríguez, che ha parlato con una ventina di loro.
Questa donna di 36 anni che lavora nel sociale, rileva che in molti casi, quando queste donne hanno osato affrontare la realtà e chiedere informazioni in una qualsiasi associazione LGTB, “il primo messaggio che hanno ricevuto sottolineava che per liberarsi avrebbero dovuto abbandonare la loro religione”. Dal Collettivo delle Lesbiche, Gay, Transessuali e Bisessuali di Madrid (COGAM, Colectivo de Lesbianas, Gays, Transexuales y Bisexuales de Madrid) negano che le loro organizzazioni si comportino in questo modo: “Crediamo nella libertà dell’individuo”, rispondono, “e non facciamo differenze in base alla religione”.
Shiraz (nome di fantasia) spiega in che maniera questo ambiente può nuocere ad una donna che viene da un paese arabo, sia o meno musulmana. Nel suo caso, si è trasferita in Spagna 17 anni fa, all’arrivo non si considerava omosessuale. “Da giovane mi piacevano le donne, però vivendo in Tunisia, dove non avevo riferimenti, non sapevo che mi stava succedendo ed avevo molti dubbi”, confessa. “Nel mio paese mi piaceva tanto una professoressa, però lo attribuivo all’ammirazione”, continua, “in realtà non ho cominciato a capire fino a che non sono emigrata”.
Questa donna, che si aggira sui 50 anni, è contenta di aver vissuto in Spagna il processo di accettazione della sua omosessualità. “In Tunisia avrei vissuto un calvario e lo avrei nascosto”, sottolinea. Di fatto, nessuno della sua famiglia – che vive in quel paese – sa niente del suo orientamento sessuale, nonostante siano “molto aperti” per gli standard di quel luogo. “Lì molti omosessuali hanno una doppia vita e qualcuno finisce addirittura per sposarsi con lo scopo di nasconderlo”.
La tunisina racconta che non si è mai considerata una persona religiosa. “Però l’educazione che ti danno da piccola influisce e ci sono cose che spuntano fuori senza che neanche te ne renda conto”, ammette. Un’organizzazione LGTB specificamente musulmana contribuirebbe a cambiare al situazione?
In Francia, dove ci sono immigranti di terza o quarta generazione, l’associazione Omosessuali Musulmani di Francia (HM2F, Homosexuales Musulmanes de Francia) dal 2010 lotta per i diritti di questo gruppo. “Non dobbiamo rinunciare ad essere musulmani per essere omosessuali”, spiega il suo fondatore, Ludovic L. Mohamed Zahed, di 34 anni. Il suo sforzo si concentra nel costruire un islam inclusivo, in cui questa comunità accolga, e nel dimostrare che escludere dalla società le donne ed i gay “non è islamico”.
Lo fanno anche attraverso il Corano, il libro sacro dell’islam e gli Hadíth, la tradizione orale sulla vita del profeta. Per discutere di questi temi, Zahed ha organizzato un congresso europeo, chiamato Calem, che durante la sua seconda edizione, lo scorso dicembre a Bruxelles (Belgio), ha raccolto 250 persone, e le cui conclusioni lo stesso Zahed ha presentato in conferenza a Parigi, Lisbona e Madrid. Il fondatore di HM2F sta già preparando il terzo Calem con l’obiettivo di toccare anche Italia, Svizzera e Lussemburgo.
In Spagna però non esiste un’organizzazione simile, secondo la conferma della Federazione Statale di Lesbiche, Gay, Transessuali e Bisessuali (Felglt, Federación Estatal de Lesbianas, Gays, Transexuales y Bisexuales). “Alcuni musulmani sono in associazioni LGTB, altri sono legati ad organizzazioni musulmane più progressiste”, fanno notare dalla federazione. La cosa più simile è il collettivo KifKif (“da simile a simile”, in arabo), che lavora per il diritti dei gay in Marocco, ma anche per quelli che attraversano lo stretto.
“Il nostro campo d’azione è fondamentalmente il nostro paese di residenza, però abbiamo dovuto registrarci come associazione in Spagna perché lì l’omofobia è considerata reato”, spiega Samir Bargachi. La storia di questo marocchino di 24 anni è tanto complessa quanto lo è quella degli altri immigrati che hanno deciso di uscire fuori dall’armadio dopo l’emigrazione: confessare il suo orientamento sessuale ha avuto come conseguenza che parte della sua famiglia e molti dei suoi amici hanno smesso di parlargli.
Senza dubbio, Bargachi, che vive in Spagna da 12 anni, non si è rassegnato a lasciare le cose così. Per questo ha fondato un’associazione per difendere i diritti degli omosessuali arabi. “Il nostro lavoro in KifKif è indirizzato principalmente alla comunità magrebina e agli altri paesi arabi, ma non ci consideriamo un’associazione musulmana, siamo un’associazione laica”, sottolinea Bargachi. “In Spagna abbiamo un gruppo di appoggio della comunità marocchina formato da una decina di persone, però la nostra azione è concentrata in Marocco”.
Secondo lui “la comunità musulmana in Spagna è ancora omofoba”, perché formata, per la maggior parte, da immigrati di prima e seconda generazione. “I miei genitori, per esempio, non sono assolutamente integrati, nonostante vivano qui da tanto tempo”, aggiunge. Con il suo lavoro il marocchino intende sensibilizzare questo gruppo ed aprire il dibattito sull’omosessualità in Marocco. Lì questo giovane ha creato la rivista Mithly, la prima che si occupa di questi temi in quel paese ed in lingua araba. Sono stati pubblicati quattro numeri cartacei e, attualmente, le pubblicazioni proseguono in internet.
Le voci contro l’omofobia nascono all’interno dello stesso islam spagnolo. “Non c’è nessuna giustificazione alla persecuzione degli omosessuali nel Corano”, afferma categoricamente Abdennur Prado, che ha dedicato a questo argomento un capitolo del suo libro “El islam anterior al Islam” (Oozebap, 2008).
Per Prado coloro che affermano che l’omosessualità è proibita dalla tradizione sbagliano: “L’Hadíth a cui si riferiscono parla dei seguaci di Lot, lo stesso episodio che nella Bibbia parla di Sodoma e Gomorra.
Però, se si legge con attenzione, ci si rende conto che non si parla di relazioni omosessuali, ma della violenza carnale nei confronti degli stranieri e del mancato rispetto della legge sull’ospitalità”, segnala Prado, di 44 anni. Il presidente della Giunta Islamica Catalana, che ha partecipato al congresso di Bruxelles, sostiene che, secondo la tradizione orale sulla vita del profeta, ai tempi di Maometto esistevano gli omosessuali, erano chiamati “muhandazun” ed il profeta di Allah li ha sempre difesi.
Prado inoltre mette in risalto che nel mondo islamico ci sono molti esempi di poesia e letteratura omoerotica, ovvero erotica e a tematica omosessuale, una tradizione che venne meno con l’arrivo del colonialismo europeo nei paesi arabi.
La sfida, ora, è fra allargare il dibattito. E pare che i primi passi potrebbero essere compiuti presto. “Nel futuro sono favorevole al fatto che ci sia un dibattito sull’omosessualità nelle comunità musulmane in Spagna”, commenta Mohamed Hamed Alí, presidente della Federazione Spagnola delle Realtà Religiose Islamiche (Federación Española de Entidades Religiosas Islámicas), che raccoglie più di 100 associazioni in tutta la Spagna.
“E’ una questione che esiste e nessuno può evitarla, sebbene si possa non essere d’accordo su qualcosa, comunque siamo dentro i parametri della democrazia e della Costituzione spagnola”, conferma Alí, 58 anni. Prado puntualizza:
“Il Corano dice che Dio è sempre con i perseguitati ed è chiarissimo che è così, che i crimini che si stanno commettendo contro omosessuali e lesbiche sono aberranti. Per me è un dovere religioso come musulmano lottare contro questa ingiustizia”.
Testo origionale: Para el gay musulmán, el armario tiene siete llaves