Perché i gay africani chiedono asilo a noi
Articolo di Raffaele Oriani pubblicato su Il Venerdì di Repubblica n.1343 del 13 dicembre 2013, p.34
Lo scorso 7 novembre la Corte di giustizia europea ha sentenziato che gli omosessuali perseguitati in patria hanno diritto d’asilo in tutta l’Unione. I tre gay che avevano portato il loro caso fino in Lussemburgo sono rimasti anonimi: X, Y e Z.
Si conoscono invece i tre Paesi da cui erano in fuga: Sierra Leone, Senegal, Uganda, dove la pena per «gli atti contro natura» è rispettivamente l’ergastolo, cinque anni di carcere e di nuovo l’ergastolo. Non si tratta di casi isolati.
L’Africa è la nuova frontiera dello sviluppo economico: la World Bank ne stima la crescita al 4,9 per cento quest’anno e al 5,5 per cento nel 2015, mentre gli analisti di McKinsey già da un paio d’anni preconizzano l’era dei leoni subsahariani dopo quella delle tigri asiatiche.
Ma alle immani contraddizioni del continente si aggiunge ora la crescente omofobia, che fa sì che in 38 Stati su 54 essere gay sia reato, con un crescendo di pene che in Mauritania, Sudan, Somalia e parte della Nigeria, porta i partner dello stesso sesso a rischiare la pena di morte.
A differenza della corte lussemburghese, il responsabile per l’Africa della diplomazia europea, l’inglese Nick Westcott, ritiene «controproducente» dare lezioni agli africani in tema di diritti omosessuali. Lezioni mai, ci mancherebbe.
Ma in Uganda è stata la minaccia di un drastico taglio agli aiuti a fermare la famigerata Kill the Gays Bill, la legge che doveva portare la pena per i gay dall’attuale – evidentemente troppo morbido – ergastolo alla ben più maschia pena di morte.
Il movimento locale contro la legge era guidato dall’insegnante David Kato, ucciso a martellate in casa sua nel 2011. Come in casa sua è stato ucciso lo scorso luglio Eric Ohena Lembembe, leader della comunità gay del Cameroon.
Violenza pubblica si salda così a violenza privata, in un inquietante fronte comune rilevato anche dal Pew Research Center che in Kenya, Uganda, Ghana, Senegal e Nigeria – tutti Paesi dove l’omosessualità è reato – stima il consenso antigay tra il 90 e il 98 per cento della popolazione.
«Nell’Africa postcoloniale ci sono sempre state leggi antiomosessuali» spiega Eric Gitari, attivista kenyota co-autore del rapporto State-sponsored Homofobia pubblicato dall’International Lesbian Gay Association. «Se queste leggi vengono ora messe in pratica è perché il movimento gay è più visibile e offre un perfetto capro espiatorio ai fallimenti dei governi».
Gambia, Uganda e Zimbabwe sono in prima linea in questo uso politico della questione omosessuale, mentre in Kenya, Botswana e ancora in Uganda i gruppi gay sono più attivi nel contrastare l’odio in tribunale: «L’Africa è usata come un laboratorio dalla destra americana» aggiunge Gitari «che aizza con uomini e mezzi le campagne antigay».
In un crescendo di intolleranza, molti ritengono che l’omosessualità vada punita perché decadente, occidentale e come tale «non africana». Dimenticano che la prima Costituzione al mondo a proteggere l’orientamento sessuale fu quella della «Rainbow Nation» di Nelson Mandela, ovvero la «nazione arcobaleno» abitata da persone di colori diversi.
Presentandola in Parlamento nel 1996, l’allora vicepresidente sudafricano Thabo Mbeki tenne un famoso discorso intitolato semplicemente «I’m an African» (Sono un africano).