«Perché io omosessuale cattolico rifiuto l’etichetta gay»
Articolo di Luciano Moia pubblicato su Avvenire il 1 giugno 2018, pag.22
C’è un solo modo per vivere serena e mente l’omosessualità da parte di una persona credente: l’affidamento a Dio nella preghiera e nella castità. L’ha spiegato mercoledì sera a Milano, Daniel C.Mattson, musicista Usa, autore di un libro intitolato “Perché non mi definisco gay. Come mi sono riappropriato della mia realtà sessuale e ho ritrovato la pace” (Cantagalli, pagg.352, euro 22). La sua esperienza personale è narrata nel documentario “The Desire of the Everlasting Hills” (Il desiderio delle colline eterne) proiettato l’altra sera per introdurre il dibattito, moderato da Raffaella Frullone di Radioinßlu, e a cui ha preso parte anche don Vincent Nagle, assistente spirituale di Courage Italia, l’apostolato per le persone omosessuali fondato dal defunto cardinale Terence Cooke, arcivescovo di NewYork, a cui oggi fanno riferimento circa 1.500 persone in 125 sedi sparse un ogni continente.
Il libro, che ha un’introduzione del cardinale Robert Sarah, è quasi un romanzo di formazione in cui Mattson racconta il suo viaggio di andata e ritorno dall’arcipelago gay. Condizione a cui sentiva di appartenere fin dall’età di sei anni. Cresciuto in una famiglia cristiana, ha vissuto in costante tensione tra la fede in Dio e le sue attrazioni sessuali. Poi, la distanza incolmabile tra i desideri provati e gli insegnamenti della Chiesa, l’hanno convinto dell’inutilità dello sforzo. Eppure nella relazione gay avviata non riusciva ad assaporare il gusto della felicità. Da qui la ricerca di un nuovo percorso e l’incontro con l’apostolato Courage.
Da allora Daniel Mattson rifiuta di “definirsi gay”, ha imparato che l’identità personale è qualcosa di molto più profondo di un’etichetta sessuale e questa consapevolezza – ci racconta l’autore prima dell’inizio del dibattito – lo ha reso finalmente un uomo libero: anche di accettare la sua omosessualità e non di sentirsi in colpa perché, appunto, vive nella castità. «Ho trovato la libertà nell’insegnamento della Chiesa.
ll Papa – prosegue – ci ha insegnato l’importanza di accompagnare le persone e dobbiamo cominciare là dove loro sono nel loro percorso. Gesù mi dice che non sono condannato. E questo è un dono, ma è un dono anche il fatto che mi dica: vai e non peccare più».
Del libro si è parlato molto in questi giorni, a proposito e a sproposito, soprattutto perché si cercato di presentarlo come “antidoto” a un altro saggio sullo stesso tema, quello del gesuita James Martin, Un ponte da costruire Una relazione nuova tra la Chiesa e le persone lgbt (Marcianum press).
Ma è lo stesso Mattson a rifiutare questa contrapposizione: «E solo una coincidenza che il mio libro e quello di padre Martin siano stati pubblicati insieme. E io non ho scritto pensando a lui. Padre Martin mostra un amore profondo nei confronti della comunità lgbt però non si sofferma molto sugli insegnamenti della Chiesa. I libri sono diversi, ma spero che nessuno legga questo come reazione a quello. Il mio è solo la storia di un’anima che ha risposto alla chiamata di Dio».
In questo cammino la bussola è rappresentata dalle indicazioni della Chiesa sulla castità – che naturalmente non valgono solo per le persone omosessuali – mentre la strada si presenta più problematica per chi non riesce a vedere nella castità l’unica risposta di un credente alla chiamata del Signore. E la questione rimane. Queste persone devono rientrare nelle cure della Chiesa, come vorrebbe una pastorale inclusiva che si sforza di proporre varie strade di integrazione comunitaria?