Perché parliamo delle persone omosessuali?
Lettere e risposta tratta da Famiglia Cristiana n. 43 del 28 ottobre 2001
Le posizioni di due lettori del settimanale cattolico Famiglia Cristiana a proposito dell’atteggiamento da avere nei confronti degli omosessuali. Dalla comprensione e all'accettazione, al richiamo dei principi della morale.
Caro padre, nella sua rubrica apparsa su Famiglia Cristiana n. 17 ho letto la lettera della signora Rumena B. di Venezia, intitolata "Perché tanta attenzione verso gli omosessuali?". Per l’ennesima volta mi sono sentita ferita per l’intolleranza e il razzismo di certe persone. Innanzitutto, la parola "omosessuale" è un termine sbagliato. Siamo prima di tutto "omofili": che significa amare una persona dello stesso sesso con un sentimento profondo e sincero.
L’omofilia non è una malattia, né una tara, né una deformità. E non è nemmeno un difetto, e neanche un peccato: è un fatto reale, vecchio come il mondo; uno sbaglio di percorso nei geni, un’identità da assumere per una vita non facile e piena di sacrifici.
Una persona così, se è intelligente, può vivere in armonia con la gente e con Dio. Non abbiamo scelto questa vita, questo essere diversi. E amiamo con sentimenti profondi e sinceri. Non possiamo cambiare, siamo quel che siamo. La signora Rumena potrebbe essere costretta ad agire in modo opposto, cioè ad amare una donna?
Gesù ci dice: «Amami come sei». Sodoma e Gomorra sono storie vere, popolate di gente viziosa e depravata che nulla ha a che vedere con una relazione tra due persone che si vogliono bene. Il fatto di essere "omofilo" non significa odiare l’altro sesso. Noi chiediamo solo rispetto e tolleranza. E, per carità, non associateci ai pedofili. Omofilo non si diventa, si nasce. Non vogliamo essere perseguitati, solo capiti. Dio farà il resto. Solo Lui giudica.
Jelena- Cagliari
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Nella sua risposta alla lettrice di Venezia, ancora una volta lei insiste in una posizione di (voluta) ambiguità sul problema degli omosessuali. La comprensione per i problemi umani di persone che, senza colpe, hanno inclinazioni omosessuali non deve mai diventare connivenza col peccato.
Invece, nelle sue risposte (per Famiglia Cristiana sembra ormai diventata un’ossessione) non c’è mai una parola chiara, mai una risposta che assomigli al «sì sì, no no» evangelico. L’ambiguità è però soltanto sua e di Famiglia Cristiana perché la Chiesa col suo Magistero su questo punto è molto chiara. Una domanda: lei ha mai letto il Catechismo della Chiesa cattolica?
L’insegnamento della Chiesa (che considera peccato grave i rapporti omosessuali e che consiglia a queste persone la castità) non è una condanna disumana, ma una risposta responsabile ed evangelica a un problema che richiede agli omosessuali la capacità di "superare" sé stessi.
Nei suoi ripetuti interventi, invece, non c’è chiarezza. La parola castità, che nella visione cristiana della vita ha un valore altissimo, sembra per lei una bestemmia! La castità viene, tra l’altro, consigliata a tutti i celibi, alle nubili, ai vedovi. E quindi anche agli omosessuali. È mai possibile che a lei questa parola non esca mai di bocca, nemmeno per sbaglio?
La Chiesa ha grande comprensione per tutti coloro che si trovano in situazioni di difficoltà, e quindi anche per le persone con questa inclinazione. Che devono essere amate nella verità. Ma questa comprensione non deve diventare mai connivenza col peccato e tolleranza per il male.
La risposta…
Perché parliamo delle persone omosessuali? Per il semplice motivo che esistono e vivono in mezzo a noi. E portano in sé una diversità che, fino ad oggi, non solo non è stata ancora capita e risolta in modo soddisfacente, ma è motivo di disprezzo e di discriminazione. Come cristiani sentiamo il bisogno di conoscere queste persone, che vivono spesso la diversità con sofferenza, e si chiedono come devono comportarsi per fare della loro condizione un fatto positivo per sé e per la comunità. Se è vero che non ci si salva da soli, ma in comunione con Dio e con i fratelli, diventa inevitabile superare quell’atteggiamento che porta a emarginare gli omosessuali.
Il primo passo da compiere consiste in una revisione del nostro atteggiamento nei loro confronti, perché possiamo vederli con gli occhi di Dio, e avere gli stessi sentimenti di Gesù: «Sono venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Non è irenismo a buon mercato, quello che ci fa correre il rischio d’essere accusati di ambiguità, di non conoscere il Catechismo e, addirittura, di tollerare il male. Qui non si tratta di connivenza col peccato, ma di trattare ognuno secondo verità. C’è ancora tanto da capire sulla omosessualità, sia da parte degli eterosessuali, ma anche da parte degli stessi omosessuali.
Finora abbiamo capito che esistono forme diverse di omosessualità. E non tutte sono un vizio. C’è una omosessualità indotta o acquisita, e una omosessualità che la persona non ha in alcun modo cercato e della quale non riesce a liberarsi. Abbiamo capito che molte persone omosessuali chiedono di essere aiutate a vivere la loro condizione in modo che diventi un momento di crescita per sé e per la comunità. Chiariamo subito che gli omosessuali non sono quelli che appaiono, con eccessi di ostentazione, nelle manifestazioni dell’orgoglio omosessuale.
Anzi, quelle manifestazioni non aiutano a conoscerli meglio e danno motivo alla gente di esprimere giudizi negativi e condannarli. Ma, al di là di quelle esibizioni, dobbiamo chiederci come devono vivere la loro omosessualità e come dobbiamo comportarci nei loro confronti. Le indicazioni che troviamo nel Catechismo (Antonio M. si rassicuri: lo conosciamo!), come pure le linee presentate dalla Congregazione per la dottrina della fede nel suo documento del 1987, sono preziose, ma suggeriscono ulteriori riflessioni.
Antonio M. ci accusa di essere conniventi col peccato di omosessualità, per l’attenzione e la comprensione che abbiamo nei confronti delle sofferenze degli omosessuali. Ancora una volta, lo vogliamo tranquillizzare sulle nostre posizioni e su quelle di Famiglia Cristiana: conosciamo bene i princìpi morali della dottrina della Chiesa, ma sappiamo pure che per poterli applicare occorre conoscere bene la realtà, come ci ricorda san Tommaso.
Ora, i princìpi non sono degli stampini che fanno nella materia cose sempre e solo uguali. Essi sono l’espressione verbale o scritta dei valori che la persona deve far vivere nella realtà concreta, scegliendo il modo più adatto perché la realtà li riceva.
Vale anche per gli omosessuali il principio che la Familiaris Consortio applica alla famiglia: «Poiché il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia riguarda l’uomo e la donna nella concretezza della loro esistenza quotidiana in determinate situazioni sociali e culturali, la Chiesa, per compiere il suo servizio, deve applicarsi a conoscere le situazioni entro le quali il matrimonio e la famiglia oggi si realizzano. Questa conoscenza è, dunque, una imprescindibile esistenza dell’opera evangelizzatrice» (n. 4).
Non basta, quindi, citare i princìpi, dobbiamo applicarci anche alla conoscenza delle persone alle quali li applichiamo. Questo modo di procedere vale in tutti i campi della vita. Altro, ad esempio, è il processo per trasfondere l’idea artistica nella plastilina, o nel marmo, o nel bronzo, o sulla tela; altra è la richiesta che si può fare a un bambino o a un giovane o a una persona adulta… Il valore resta sempre identico, ma il modo di applicarlo e di farlo vivere nella realtà varia all’infinito.
Nel nostro caso: la castità è una richiesta rivolta a tutti gli uomini e a tutte le donne, sia eterosessuali sia omosessuali; ma assume modi diversi secondo i tempi, gli stati di vita e le condizioni di vita. Altra è la castità del giovane, della persona sposata, della persona consacrata, della persona vedova, della persona omosessuale. La questione non è di salvare i princìpi, ma di salvare le persone attraverso i valori contenuti nei princìpi.
Il problema dell’omosessuale consiste proprio nel fatto che tende a risolvere il suo bisogno "naturale" di "uscire dalla solitudine" (inteso in senso biblico) con una persona dello stesso sesso. Sappiamo che i bisogni naturali devono trovare una risposta, altrimenti la persona non può realizzarsi come persona.
Ma, nello stesso tempo, sappiamo che la virtù della castità richiede che la risposta al bisogno di "uscire dalla solitudine" non venga ricercata nella direzione di una persona dello stesso sesso. Allora come si risolve per gli omosessuali il bisogno di uscire dalla solitudine rispettando il princìpio della castità?
La risposta che di solito viene data è quella della "casta amicizia", sostenuta dalla volontà e dagli aiuti soprannaturali. Ma è sufficiente? L’attrazione che sentono nascere dalla loro sessualità dev’essere congelata, oppure si può pensare che possano stabilire un rapporto fondato sull’attrazione sessuale, anche se devono escludere il coinvolgimento della sessualità genitale? E se così fosse, cosa significa per le persone omosessuali, e per noi, un rapporto che è privato della eterosessualità e di tutto ciò che nasce dalla eterosessualità?
Non basta stabilire come essi devono vivere, dobbiamo chiederci quale tipo di rapporto e quali relazioni intendiamo stabilire con loro. Altrimenti, anche noi corriamo il rischio di cadere nella posizione di coloro che dicono: «Vivete in castità, nel nascondimento e non rompete le scatole!». Antonio M., che giustamente chiede agli omosessuali una vita casta, accetterebbe di stabilire con essi un rapporto di fraterna amicizia?
Le domande, come si vede, sono molte e non si risolvono con un sì o con un no. La verità non è sempre facile da scoprire. E la realtà non è così netta e uniforme come vorremmo. Facciamo attenzione a non diventare, anche noi, nemici della verità preferendo o confondendo sbrigativamente la chiarezza con la verità.
D.A.