Perchè serve una teologia cattolica che aiuti a uscire dall’armadio i cristiani LGBT
Prefazione del gesuita cileno Cristian del Campo al libro di Carolina del Río Mena, ¿Quién soy yo para juzgar? Testimonios de homosexuales católicos, Editorial Uqbar, Santiago (Cile), anno 2015, pp.13-11, liberamente tradotto da Dino
Il secolo XX è stato un secolo di grandi segni. La Chiesa cattolica così l’ha percepito e ha dato inizio al Concilio Vaticano II, la sua sfida più rischiosa e fondamentale dopo Trento, mettendosi in atteggiamento di ascolto e di riflessione su quello che stava avvenendo e che bussava con forza alle sue porte e alle sue finestre. Convocando il concilio, San Giovanni XXIII evidenziava: “Facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi (Lc 12,56), crediamo di scoprire, in mezzo a tante tenebre, numerosi segnali che ci infondono speranza sul destino della Chiesa e dell’umanità“. E il vento fresco dello Spirito Santo entrò e rinnovò il conclave.
La Chiesa latinoamericana si sentì erede di questo spirito conciliare e come nessun’altra Chiesa del continente raccolse l’invito e si addentrò con coraggio in un percorso teologico complesso, che incontrò resistenze di vario tipo. Indicò così il cammino affinché altre Chiese, sia a diffusione continentale che locali, facessero lo stesso.
Per l’America Latina furono anni intensi dal punto di vista teologico. Tuttavia l’abbrivio della spinta teologica conciliare si andò esaurendo. Le conferenze episcopali e le facoltà di teologia continuarono a svolgere il loro lavoro di riflessione, ma smisero di toccare con mano quella vitalità teologica che dialogava intensamente con gli avvenimenti culturali e sociali del presente.
La mancanza del discorso teologico si manifesta in modo più marcato in quelle società in cui il processo di secolarizzazione è avvenuto più rapidamente, forse per il confinamento del discorso teologico all’ambito esclusivamente religioso.
Ciò è avvenuto anche in Cile, ed è per questo che oggi ci meravigliamo di una teologia che possa dialogare con una società in trasformazione, con un paese che in pochi anni è cambiato in modo sostanziale.
Perciò questo libro (¿Quién soy yo para juzgar? Testimonios de homosexuales católicos di Carolina del Río Mena, Editorial Uqbar, Santiago Cile) è utile. Primo perché l’omosessualità è una realtà che ha cominciato ad uscire dall’armadio e la nostra società, con difficoltà e ancora con pregiudizi, ha fatto passi molto importanti di accettazione, comprensione e inclusione.
Inoltre è utile perché abbiamo bisogno – soprattutto noi figli della Chiesa cattolica- di domandarci che cosa è avvenuto – e che cosa no – nella nostra Chiesa, perchè in molti sentiamo che dobbiamo parlare di più, ascoltare di più le persone omosessuali e le loro famiglie, discutere di più, e insieme discernere ciò che Dio ci chiede.
Questo libro è anche degno di essere letto perchè chi lo scrive ha studiato teologia, ama la Chiesa, è una persona laica che sa cos’è la vita in coppia, crescere un figlio e guidare una famiglia. E più ancora, perchè chi scrive è una donna, e abbiamo bisogno del punto di vista di una donna per parlare di Dio, per fare teologia.
Da donna quale è, l’autrice capisce che far teologia non è soltanto un esercizio intellettuale e speculativo, ma anche un primo approccio, che è sempre uno sguardo amoroso di qualsiasi realtà umana, specialmente quando questa è stata luogo di esclusione, violenza e incomprensione. Lo sguardo femminile in primo luogo ci apre a considerare Dio come vicinanza, misericordia e amore incondizionato. Perciò questo libro dedica tanto tempo ad “ascoltare” con calma e delicatezza le testimonianze che vengono condivise.
Ascoltare con cuore aperto, per comprendere in queste storie di sofferenza e solitudine, storie di uomini e donne comuni che hanno sperimentato per lunghi anni la loro condizione omosessuale come un peso enorme e che, non poche volte come persone di fede, hanno avuto la percezione che, in mezzo alla sofferenza che questa croce comporta, sembrava “vi si nascondesse la divinità”. Storie di padri e madri che hanno dovuto affrontare da parte di un figlio o di una figlia una rivelazione a cui non erano preparati, che ha messo a dura prova l’incondizionatezza dell’amore di fronte a tante paure e pregiudizi, che ha consentito di vedere la vita e le nostre opinioni così sicure su temi che non conosciamo realmente, con uno sguardo che parte dall’amore e dall’accoglienza.
Qui allora ci sono le testimonianze che occupano la parte più importante del libro. Lo si capisce senza doverlo spiegare: prima di cominciare a esporre teorie interpretative, è necessario ascoltare. E ascoltare lasciando che ogni persona racconti la sua storia con le sue parole.
Ma oltre a dedicare buona parte del libro a raccogliere queste testimonianze, l’autrice non si limita all’accoglienza compassionevole delle persone omosessuali, delle loro famiglie e delle loro storie, ma si avventura in una riflessione teologica. Qui si nota che lei vuole assumersi l’impegno concreto che nella Chiesa è una conseguenza all’essere battezzati. E, da teologa qual’è, vuole tradurre questo impegno in una riflessione seria e pertinente, che si offre per il necessario discernimento teologico che come comunità di credenti dobbiamo fare davanti a questi segni del nostro tempo.
Carolina si impegna a riscattare le persone che hanno condiviso la loro testimonianza, non solo l’esperienza umana di riconoscersi omosessuali, ma anche l’esperienza religiosa, di fede. Questo è innovativo. Ascoltare Fernando che, vedendo una coppia gay che si guarda e si manifesta affetto, osserva con profondità e sicurezza: “Come può non esserci Dio qui!”. O riscattare il pensiero di Ximena: “Una cosa è la ragione, ma c’è anche il cuore”; c’è sicuramente la scienza teologica, ma è altrettanto sicura l’esperienza di essere madre e tutto ciò che ne consegue.
Risulta chiaro nel capitolo finale quanto cammino debba ancora fare la nostra teologia cattolica rispetto alla realtà dell’omosessualità. Di fatto ci sono già stati concreti progressi, dovuti in buona misura al fatto che la scienza biologica e psicologica negli ultimi decenni ci hanno aiutato a comprendere meglio questa condizione. Lo stesso papa Francesco ha contribuito al cambiamento di tono nel riferirsi a persone omosessuali. Per altri versi, mi sembra anche che riflettendo in modo critico sullo stato attuale del Magistero, troviamo la mancanza di un maggior sforzo di comprendere il valore che hanno alcuni concetti come la complementarietà, condizione per la procreazione, e il valore che la Chiesa sta proponendo oltre le dimensioni unitiva e procreativa degli atti sessuali. Mi sembra essenziale “salvare la proposta” del Magistero, conoscendolo rigorosamente e comprendendo i valori e le verità che ci sono oltre le affermazioni dottrinali, per poter proporre i cambiamenti che appaiono più necessari.
La teologia sviluppata in questo libro non è solo una teologia che ha un oggetto di riflessione, un contenuto diverso. E’ una teologia che, nel miglior spirito della teologia latinoamericana, cambia anche il suo metodo. Prima si deve vedere, poi giudicare alla luce della nostra fede, per agire alla fine in maniera conseguente e conforme. Questa, credo, è la proposta di questo libro.
I primi due capitoli vogliono invitarci a vedere, ascoltare, lasciare che persone omosessuali e i loro genitori parlino, e lo facciano tranquillamente, senza problemi. E che, partendo da queste realtà ascoltate, riflettiamo insieme all’autrice nel terzo capitolo alla luce delle verità della nostra fede, dell’esperienza teologica personale, di ciò che viene affermato nel Magistero della Chiesa, e delle nuove idee che sono attualmente in discussione riguardo a questi argomenti tanto complessi. E questo affinché tutto ciò che abbiamo letto e meditato in questo libro ispiri il nostro agire quotidiano nel mondo.
Questo libro serve a stimolare la discussione. Ci propone buone domande e ci chiede di approfondirle per cercare risposte migliori. Leggerlo comporterà sicuramente dialogare, discutere e dissentire con l’autrice stessa o con chi è stato citato da lei, esperienza da cui anch’io non sono esente.
Lo sforzo di Carolina è lo sforzo di una credente, di una teologa, per comprendere teologicamente questo segno dei nostri tempi. Questo è ciò che ci piace, poichè “i segni dei tempi, letti con un cuore aperto e sensibile, sono quelli che impediscono che la lettera estranea a qualsiasi rivelazione che venga fatta in linguaggio umano – anche quella del Vangelo – possa diventare portatrice di morte (2 Cor 3,6) e farci sbagliare invece di portarci all’incontro col cuore di Dio“.