Perché un ragazzo gay di oggi può uccidersi?
Annotazioini di Andrea Rubera del gruppo Nuova Proposta di Roma
Titolo questa nota parafrasando il titolo di una canzone de Baustelle a me cara e che mi aveva fatto pensare molto quando la ascoltai la prima volta: “Perché una ragazza d’oggi può uccidersi”.
Simone si è suicidato 2 giorni fa, e questo oramai è cronaca. Aveva 21 anni e ha deciso di farla finita gettandosi dall’undicesimo piano di un palazzo nel comprensorio Pantanella. Anche questo è cronaca. E ha lasciato un messaggio: “l’Italia è un paese libero ma esiste l’omofobia e chi ha questi atteggiamenti deve fare i conti con la propria coscienza”. Cronaca. Sempre cronaca.
Ho provato a riflettere bene, invece, su alcuni aspetti spiazzanti di questa e delle altre due vicende simili che negli ultimi mesi hanno funestato la capitale.
Parlando con parenti, amici, vicini di Simone, nessuno era a conoscenza né della sua omosessualità, né di eventuali atti di bullismo da lui subiti.
Sembra che la solitudine, la disperazione di Simone fossero totalmente invisibili e che se le fosse vissute tutte in una prospettiva introflessa. E allora, mi chiedo, e pongo questo quesito a tutti: perché un ragazzo gay di oggi può uccidersi?
La mia risposta sta ovviamente nella parola “omofobia” ma dobbiamo stare attenti a declinarla nella giusta accezione. In questo momento il Parlamento sta vagliando una proposta di legge che vuole proteggere (con tutti i limiti dei compromessi tra partiti che la stanno via via svuotando) le persone dalle aggressioni omofobe. Ma Simone si è suicidato pur non essendo stato probabilmente vittima di aggressioni omofobe. Eppure dal suo messaggio è evidente che l’omofobia è stata il suo assassino.
Cosa intendeva Simone con omofobia?
Ipotizzo alcune interpretazioni, evidentemente filtrandole anche con la mia personale esperienza. In Italia, ancora oggi, benché internet e l’associazionismo stia migliorando decisamente la circolazione dell’informazione e l’opportunità di confronto e sostegno, l’omosessualità non esiste nell’immaginario quotidiano. Parlo ovviamente in via generale, conscio che per fortuna stanno sorgendo sempre più eccezioni.
Per lo meno non esiste come opzione di vita tra le tante. Esiste ancora come “eccezione”, macchietta, caso da trattare con registro ora comico ora drammatico. E’ proprio la “quotidianità” che viene negata nell’immaginario collettivo, quotidianità non fatta di estremi, di bianchi e neri, ma da un’infinita gamma di grigi, anche di banalità e gesti ripetuti nella loro automatica e calda familiarità.
Non esistono modelli che presentino l’omosessualità come una possibilità di vita da poter sviluppare con progettualità e slancio uguali a quelli di ogni altro essere vivente. Di omosessualità non si parla in famiglia, a scuola, o meglio se ne parla semmai con battute.
Manca la rappresentazione della dimensione della “speranza” per le persone omosessuali, quella speranza che, soprattutto per chi si sente cristiano, è “azione”, è progetto che, insieme a quello degli altri, diventa “vivere e stare insieme”.
Questo avviene, purtroppo, in ogni ambito: a scuola, nei media, negli ambiti di fede e anche, soprattutto, in famiglia: è ancora diffusissimo il pensiero (provate a verificarlo anche tra i vostri amici più “aperti”) che essere gay è un problema e che non lo si augurerebbe al proprio figlio perché “consci delle sofferenze che dovrebbe affrontare”.
Cosa, ancora oggi, percepisce un ragazzo gay? Che essere gay è male, è un problema, è qualcosa che impedisce una vita piena. Che se si prende una cotta per un ragazzo, invece di andare a condividere la sua gioia con l’amico o l’amica del cuore per chiedere consiglio, deve nasconderlo e, anzi, reprimere questo sentimento. Che essere gay implica nasconderlo, nascondersi; implica controllo: di ogni gesto, di ogni parola, di ogni contesto in cui ci si trova.
Tutto questo, ovviamente, implica, da parte della persona che lo subisce, il dispiego di infinite energie; energie che, invece di essere messe a disposizione dello sviluppo della persona e del suo personale progetto di vita, sono impiegate a “contenere”, “limitare”, “circoscrivere”.
Infine, non nascondiamoci dietro a un dito, il progetto di vita di una persona gay o lesbica, è profondamente mutilato anche e soprattutto dall’assenza di uguali diritti: diritto a poter immaginare una vita di coppia che, per chi lo desideri, culmini nel matrimonio, diritto a diventare genitore.
Tutto questo porta una persona come Simone (ma ce ne sono migliaia come lui) a tenersi dentro le sue paure, le sue angosce, la sua disperazione, come anche i suoi desideri e le sue aspirazioni.
Nasce quel rapporto privilegiato con l'”aldidentro” che per molti diventa una gabbia da cui non si riesce più ad uscire.
Credo veramente che i genitori potessero non aver capito fino in fondo la situazione di Simone e non faccio loro una colpa per questo. Accade che l’angoscia di essere omosessuale, in un contesto che non ti vuole, porti a diventare molto bravi nell’arte della dissimulazione.
Cosa si può fare per cambiare?
Innanzitutto cerchiamo di dare un significato allargato alla parola omofobia: omofobia non sono solo botte, parolacce, offese, violenza. Da questa accezione “ristretta” di omofobia è facile prendere le distanze.Tutti si sentono in dovere di stigmatizzarla.
L’omofobia più diffusa, che ha imprigionato Simone, e di cui siamo tutti complici, è quella che nega l’esistenza di un vissuto quotidiano delle persone omosessuali, che non dà cittadinanza all’omosessualità se non come argomento “scientifico” o di “cronaca”. Che impedisce di pensare fino in fondo a una persone omosessuale come “uno di noi”, libero di pensare alla propria vita libero di condizionamenti, libero di “se” e di “ma”.
Quando scopriremo che avere di fronte un figlio, un amico, un collega, un vicino di casa omosessuale è cosa tanto trasparente da non essere degna di nota, allora sapremo che l’omofobia sarà veramente sparita.
La Chiesa faccia la sua parte
Essendo io uomo di fede, non posso non fare una zoomata sulle specificità che accadono nel mondo cattolico, dove la situazione è mediamente più arretrata del resto della società su questo tema.
Nelle comunità cristiane, nei percorsi di fede, nelle parrocchie, l’omosessualità semplicemente non esiste. O meglio: esiste come “specificità” da trattare dai punti di vista “morale” e “dottrinale”. Non esiste in quanto incarnata nelle singole persone, ognuna con una propria vita unica.
Viene troppo spesso scambiata l”accoglienza”, per “non cacciare”. Viene ribadito che mai nessuna persona omosessuale” sarà allontanata dalla propria comunità. e questo probabilmente è vero. Perché quello che fa, invece, allontanare le persone omosessuali credenti dai loro percorsi non è un atto di “cacciata” ma piuttosto una forza centrifuga innescata dal rendersi conto che, in quei contesti, che per molti sono una seconda casa, la loro esistenza non è prevista, se non come “atto di rinuncia”.
Pensate a cosa accadrebbe (e accade) se una coppia gay volesse frequentare in trasparenza una parrocchia o un cammino di fede, per l’appunto in quanto coppia, senza nascondersi o fingere di essere altro da sé. E pensate, ancor di più, a cosa accadrebbe se la famiglia fosse composta da due genitori dello stesso sesso che volessero far frequentare al proprio figlio il catechismo o gli scout.
La verità è che la chiesa, ancora oggi, non ha formulato sul tema dell’omosessualità, altro da quello che viene espresso nel Catechismo ufficiale che alterna, generando un effetto straniante, la condanna degli atti atti omosessuali (visti come “intrinsecamente disordinati” e da non approvare in alcun caso) ad accoglienza, con rispetto, compassione, delicatezza, delle persone omosessuali.
Il problema è che la persona non è, come nella visione platonica che la chiesa stessa ha superato su tutto il resto da tempo, “ingabbiata” nel proprio corpo, ma vive con esso in un’organicità di essere che presenta la sua personale e unica esperienza terrena.
Le parole di papa Francesco sugli omosessuali stanno dando a tutti grande speranza. Il suo indugiare solo sull’aspetto di accoglienza del catechismo, senza mai ricordare la parte di condanna, rappresenta di per se stesso un contenuto non secondario.
Certo, devono ancora trasformarsi in qualcosa di concreto, anche se effetti, secondo me, li stanno già generando, soprattutto tra quei parroci, ad esempio, che con spontaneo slancio avrebbero voluto fare qualcosa per favorire l’accoglienza delle persone omosessuali e che non lo hanno fatto per paura di essere messi sott’occhio. Con queste parole quei parroci potrebbero aver trovato nuova forza.
Ma in concreto, cosa potrebbe fare la Chiesa? Per me, dovrebbe voler capire fino in fondo cosa significhi accoglienza vera per i ragazzi e le ragazze omosessuali. Prendendosi a carico le loro vite, guardandoli con gli occhi del cuore e non con quelli della legge.
Favorendo ambiti in cui si parli di omosessualità con naturalità e come opzione tra le altre. Cercando di ipotizzare un percorso pastorale che accompagni le persone omosessuali anche nel loro desiderio di affettività, indirizzandolo e formandolo piuttosto che negandolo.
Fornendo quella speranza che, a maggior ragione, dovrebbe provenire da un ambito di fede. Speranza che la propria vita non è “una prova” (come dice il catechismo) ma che, come quella di chiunque altro, è un bellissimo tesoro da vivere insieme agli altri, mettendo in circolo tutte le proprie energie vitali, non segregandone neanche una piccolissima porzione a quell’ambito di solitudine dove troppi gay e lesbiche sono ancora oggi confinati.