Perdono: riconoscere e accogliere la diversità
Articolo tratto dal blog del Gruppo Ruah di Trieste del 17 marzo 2013
Sabato 16 marzo si è svolto a Conegliano il 4° incontro dell’anno sul tema “Accogliere la diversità alla scuola di Gesù”. In preparazione alla Pasqua è stato scelto il tema: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Luca 23,34).
L’incontro si è svolto presso la Chiesa Valdese di Conegliano, con la partecipazione della pastora valdese Elisabetta Ribet e di una folta delegazione di fratelli e sorelle ghanesi, per lo più giovani adolescenti, appartenenti alla comunità.
Chi perché donna e pastora, chi perché nero in terra “leghista”, chi perché omosessuale, tutti abbiamo potuto attingere da un trascorso di diversità e di discriminazione.
Il tema del perdono, quindi, ha avuto una particolare risonanza in tutti i convenuti. Anche questa volta abbiamo iniziato creando una mappa nella quale ognuno ha potuto scrivere cosa la parola “perdono” suscitava nel proprio cuore.
Come uno dei presenti ha sottolineato, la discriminazione fa in modo che noi per primi crediamo di essere “inferiori”, di non essere degni. E quando non amiamo noi stessi, e non perdoniamo noi stessi, diventa difficile ricevere il perdono anche offrirlo.
La testimonianza di uno dei ragazzi ghanesi più giovani, nella sua semplicità, è stata disarmante: “quando vengo discriminato da qualcuno, vado da quella persona e cerco di conoscerla, perché è solo conoscendomi che potrà ricredersi”.
La pastora Elisabetta Ribet ha poi condiviso la sua riflessione di cui riportiamo qui una sintesi (non rivista dall’autrice):
“Il capitolo che è stato proposto per questo incontro, dal libro di padre Alberto Maggi “Versetti pericolosi”, è molto opportuno come scelta sia per il discorso del perdono e soprattutto per questa “stagione”. Si intitola “Last minute” ed è una riflessione sul momento della fine della vita di Gesù: la passione, il tradimento, questa parte terribile, concitata, scandalosa e folle, come dice san Paolo (cfr. 1 Cor 1,18.23-24), e che si conclude con l’ultima figura che parla con Gesù, ossia il ladrone al suo fianco sulla croce, che all’ultimo si converte, quasi sulla porta del regno (da qui il motivo del titolo del capitolo).
In questo brano ci sono alcuni personaggi che sono particolarmente evidenziati.
Giuda viene presentato in modo molto tranchant, come la figura della carogna traditrice e basta, ed è su questa che mi vorrei un attimo soffermare, alla base di quello che ci siamo detti prima sul perdono. Anche Giuda potrebbe essere ridipinto in altri modi: proviamo a conoscere questo Giuda prima di giudicarlo così pesantemente, perché questa nostra riflessione non sia troppo autoreferenziale cercando di guardare alle figure bibliche, anche quelle più controverse (a volte è questo il rischio che corriamo come persone in ricerca di fede); cercando di capire meglio queste figure riusciamo a crescere nella fede, a fare un percorso di messa in discussione dei nostri stessi stereotipi, sia sulle figure bibliche che sul nostro modo di concepire la fede. Anche noi stessi ci troviamo a tradire Gesù in maniera altrettanto meschina, altrettanto doppiogiochista.
Ci sono altre figure che Maggi propone e che sono un gruppo di persone legate alle istituzioni, da una parte quelle legate alle istituzioni religiose (Anna, Caifa, i sacerdoti) e dall’altra quelle politiche (Ponzio Pilato in particolare). Tutti i protagonisti di questa vicenda sono tutti abbastanza rinchiusi in categorie: il “tipo” del traditore, il “tipo” dell’istituzionale fetente, il “tipo” politico doppiogiochista alla Ponzio Pilato, e via di seguito.
In qualche modo si può dire che le due istituzioni (l’ordine sacerdotale/la chiesa istituzionale e la politica) non tradiscono neanche Gesù, perché praticamente per loro non conta! Giuda almeno tradisce qualcuno, mentre le istituzioni di fatto servono altri idoli, e di Gesù non si prendono carico se non come di un fastidio che va sbolognato in qualche modo.
Questo è molto vicino alla realtà di oggi, dove le istituzioni spirituali e politiche hanno più idoli che ideali. Davanti a questo, davanti a tutto scherno, la reazione di Gesù è proprio questa preghiera: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
C’è un bellissimo commento del catechismo di Heidelberg (uno dei testi fondamentali della teologia riformata del primo periodo) nel quale si parla di questo momento e si fa notare che quando gli schernitori dicono a Gesù sulla croce: “Se sei il vero figlio di Dio, staccati da quella croce, scendi e salva te stesso”, in realtà stanno proponendo a Gesù di dare loro un alibi per non credere: “Io non credo in te perché tu non scendi dalla croce, non mi dimostri che sei un supereroe”.
La cosa bella che afferma il catechismo di Heibelberg è esattamente il contrario: loro non credono perché non scende, noi cristiani crediamo in Gesù Cristo perché non è sceso da quella croce. Questo è quello che Paolo diceva scandaloso, la pazzia della croce. Dio pur essendo Dio rimane lì e non sceglie di assecondare la fame di spettacolo che ha l’essere umano.
Anzi, la risposta è non solo sopportare la croce fino alla morte, ma è sopportare la croce pregando: “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”, che è l’apoteosi dello “scandalo” dell’amore di Dio. La riflessione è sull’antitesi tra il potere che l’uomo cerca e la potenza di Dio. Laddove noi ci lasciamo asservire dai poteri di questo mondo, Dio invece dimostra la sua potenza. La potenza di Dio sta nel perdono, il potere dell’uomo sta nella violenza, nell’essere più forte dell’altro.
Maggi conclude questa narrazione della passione ricordando questa figura commovente del ladrone che sulla croce dice all’ultimo: “Ricordati di me quando entrerai nel regno di Dio”.
Guardando in giro per casa ho trovato un libro di Kahil Gibran, un poeta, filosofo libanese, neanche tanto cristiano, ma amante della sapienza, della spiritualità. In “Gesù figlio dell’uomo” presenta una serie di figure che avrebbero potuto benissimo trovarsi lì attorno, nella zona della croce. Ovviamente non sono documenti storici, ma è fiction letteraria, che però è molto suggestiva. Sono in realtà delle brevi meditazioni fatte in forma di narrazione, di testimonianza di tutte queste varie persone (alcune che troviamo nei vangeli, altre che sono inventati di sana pianta).
Vi leggerei un raccontino, una testimonianza, attribuita a un uomo che viveva nei dintorni di Gerusalemme e che racconta di Giuda:
“Quel venerdì – ricordo che era la vigilia della Pasqua -, Giuda venne a cercarmi, e bussò con forza alla mia porta. Allora lo feci entrare, e nel guardarlo mi accorsi che aveva il viso orrendamente pallido e le mani tremanti come fuscelli al vento; e le vesti grondavano al punto che sembrava fosse appena riemerso dalle acque di un fiume: quella sera infatti infuriava un violento temporale.
Mi guardò, e i solchi sotto i suoi occhi erano due antri tenebrosi, e iniettate di sangue erano le sue pupille. E giuda disse: “Ho consegnato Gesù di Nazareth ai Suoi nemici, che sono anche i miei”.
Poi, serrando i pugni, aggiunse: “Gesù diceva di voler abbattere i Suoi oppositori e i nemici della nostra gente. Ed io gli credetti e lo seguii. Quando ci chiamò per la prima volta, ci promise un regno potente e smisurato e, colmi di fiducia, noi cercammo di attirarci il Suo favore per ottenere posizioni di prestigio alla Sua corte. Ci vedevamo già principi, aspettavamo trepidanti il momento di poter trattare questi Romani come loro avevano trattato noi. E Gesù parlava continuamente del Suo regno, ed io pensavo che avesse scelto me per guidare i Suoi carri e i Suoi guerrieri. Lo seguivo con tutto il cuore.
Ma presto mi accorsi che non era un regno quello che Gesù inseguiva, e non era dai Romani che voleva liberarci. Quel Suo regno altro non era che il regno del cuore. Lo sentivo parlare d’amore, di carità e di perdono, e le donne agli angoli di strada lo ascoltavano piene di speranze, mentre in me nascevano l’amarezza e il rancore. Colui che si era presentato a me come il futuro re di Giudea sembrava essersi trasformato d’improvviso in un suonatore di flauto, in un misero incantatore di straccioni e di vagabondi. Io l’ho amato e come me l’hanno amato molti altri della mia tribù.
Ho visto in Lui una speranza, la liberazione dal giogo degli stranieri. Ma quando non volle dire una parola, non volle muovere un dito per il nostro riscatto, quando arrivò ad asserire che si doveva dare a Cesare quel che era di Cesare, allora fui invaso dalla disperazione e mi morì dentro ogni speranza, e dissi: ‘Colui che ha ucciso i miei sogni, sarà ucciso a sua volta, perché i miei sogni e le mie speranza sono più preziosi della vita di qualsiasi uomo’.”
E nel dir questo Giuda digrignò i denti, poi abbassò il capo, e tacque. E quando nuovamente incominciò a parlare, disse: “Io l’ho consegnato! Ed oggi è stato crocifisso… Eppure su quella croce, la Sua morte è stata quella di un re. È morto tra le grida disperate della gente; è morto come i liberatori, come quei gradi uomini che continuano a vivere anche oltre il sudario, oltre l’oscuro tonfo della pietra che chiude il sepolcro. E anche mentre moriva era amorevole e gentile, nel Suo cuore colmo di misericordia. E persino per me sapeva provare compassione, per me che l’avevo consegnato”.
Ed io dissi: “Giuda, tu hai commesso un’orribile ingiustizia”. E Giuda a me: “Ma se è morto da re, perché da re non ha vissuto?”.
Ed io dissi di nuovo: “Hai commesso un orribile crimine”. E Giuda si sedette là, su quella panca, e rimase immobile come un sasso. Io invece camminavo su e giù per la stanza, e una volta ancora gli dissi: “Ti sei macchiato di un’orribile colpa”.
Ma Giuda non diceva una parola e rimaneva muto, come muta è la terra.
E dopo un poco si alzò in piedi e mi si fece di fronte, e sembrava più alto, e quando parlò la sua voce era simile al suono di un vaso che va in pezzi, e disse: “In fondo al mio cuore non avrei voluto commettere quel peccato. Questa stessa notte raggiungerò il Suo regno, e quando sarò al Suo cospetto, gli chiederò perdono. Egli è morto da re ed io morirò da traditore. Ma in cuor mio io so che mi perdonerà”.
Dopo aver pronunciato queste parole, si avvolse il mantello fradicio intorno alle spalle e disse: “Ho fatto bene a venire da te questa notte, anche se ti ho reso inquieto. Saprai perdonarmi anche tu? Di’ ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli: ‘Giuda Iscariota consegnò Gesù di Nazareth ai Suoi nemici perché credeva che Egli fosse nemico della Sua gente’.
E di’ loro anche che, nel giorno stesso del suo spaventoso errore, Giuda seguì il Re ai giardini del Suo trono per consegnargli la sua anima ed essere giudicato. Ed io a Lui dirò che anche il mio sangue agognava la terra, e il mio spirito storpio la libertà”-
Poi Giuda appoggiò la testa contro il muro e gridò forte: “O Dio, il cui nome temibile nessun uomo può pronunciare prima che le sue labbra siano tocche dalle dita della morte, perché mi hai arso con un fuoco che non aveva luce? Perché hai acceso nei Galilei l’amore per una terra sconosciuta e me hai caricato di un fardello di passione che non sa appagarsi di una famiglia o di un focolare? E chi è quest’uomo, questo Giuda, dalle mani sporche di sangue?
Aiutami a liberarmi di lui, di questa veste ormai lacera, di questa bardatura cenciosa. Fa’ si che possa farlo questa notte. E lascia che io sia di nuovo fuori da queste mura. Sono stanco di questa libertà senz’ali. È una prigione quella che voglio, ma una prigione più grande. Voglio versare un torrente di lacrime nel mare amaro. Voglio essere un uomo che bussa alla Tua porta per ottenere misericordia, non a quella del suo cuore”.
Così parlò Giuda, e poi aprì la porta e tornò fuori nella tempesta. Tre giorni dopo mi recai a Gerusalemme e seppi quanto era accaduto. E seppi anche che Giuda si era gettato dalla cima della Roccia Alta.
Molto ho riflettuto dopo quel giorno, ed ora comprendo: Giuda volle porre fine alla sua misera vita, sospesa come un velo di nebbia su questa regione asservita ai Romani, proprio mentre il grande profeta ascendeva alla vetta.
Un uomo bramava un regno in cui sarebbe stato principe. Un altro desiderava un regno in cui tutti lo sarebbero stati”.
Mi sembrava un testo da condividere perché dà un’altra luce a questa figura. Dietrich Bonhoeffer, un altro teologo protestante, nelle sue meditazioni sul tempo pasquale a un certo punto fa una riflessione anche lui sul perdono dicendo che la cosa che scandalizza di più, che si fa più fatica a capire è il momento in cui nel vangelo si dice semplicemente: ‘Giuda, uno dei dodici’, e lo si include.
E questo apre un dubbio: se Gesù sa, com’è che fra i dodici mette Pietro che lo rinnega, Giuda che lo tradisce, Giacomo e Giovanni che litigano fra chi è il più grande, chi deve stare alla destra e alla sinistra?
– Significa qualcosa di molto più incomprensibile: fu Gesù stesso a chiamare e scegliere Giuda. È questo il vero mistero.Perché Gesù sapeva fin dall’inizio chi lo avrebbe tradito (…) Giuda, uno dei dodici; e adesso il lettore deve guardare non soltanto a Giuda, ma piuttosto in grande smarrimento al Signore che lo scelse. E coloro che Egli sceglieva, li amava.
Questi due elementi, questo testo di Gibran e la riflessione di Bonhoeffer, credo che siano molto belli e molto provocanti per noi oggi perché ci dicono da una parte l’assoluta prevedibilità dell’essere umano, la facilità con cui i nostri errori sono pronti che ci aspettano, e dall’altro ci dicono l’assoluta follia dell’amore di Dio che a priori, da prima ancora che l’essere umano capisca e decida e scelga di tradire o non tradire già sa che ci sarà prima o poi un tradimento e nonostante questo accetta, accoglie, chiama lui stesso le persone, questo è il paradosso scandaloso del Cristo, ma più che mai del tempo di Pasqua.
Quanto al testo di Gibran credo che vada molto sulla scia di quello che ci siamo detti oggi, nell’invitarci a non fermarci mai all’apparenza, al primo giudizio. Quando arriviamo all’incontro dell’altra persona, e seriamente ci mettiamo in gioco in questo incontro, cadono gli stereotipi, cadono le frasi fatte, e quindi ci troviamo nudi gli uni di fronte agli altri e costretti a fare i conti con delle realtà dell’altro che non avremmo voluto o saputo prendere in considerazione.
Riconoscere la ragione dell’altro è un qualcosa che ci apre una strada dolorosissima: lo abbiamo visto, lo sappiamo, però è una strada che se siamo cristiani dobbiamo percorre, non possiamo non percorrere le strade dell’incontro”.
Ringraziamo Dio per questa nuova tappa del nostro cammino, per quello che abbiamo potuto condividere sul tema del perdono e per i nuovi amici che abbiamo conosciuto.