Quale vita d’affetti per il credente omosessuale
Lettera con risposta di don Leonardo Zega tratta da Famiglia Cristiana, n.25 del 18 giugno 1997
Leggo con interesse la sua rubrica e trovo sempre nelle sue risposte comprensione, buon senso e chiarezza. È proprio all’insegna di questo stile che le chiedo di rispondere alle mie domande. Ho quarantatré anni, sono celibe non per vocazione ma perché omosessuale. Come sa, non c’è scelta al riguardo, se non accettarsi con serena rassegnazione o flagellarsi fra sensi di colpa, menzogne e nevrosi. Non farsi una famiglia, non avere figli, reprimere emozioni, desideri e sogni è una strada davvero difficile: come camminare tra le spine senza ferirsi?
Dopo mille tormenti, ho deciso di accettare il mio stato, come docile figlio di Dio. Ho letto però i quattro vangeli con grande interesse e a volte con struggente emozione (in particolare Matteo) e non vi ho trovato traccia di condanna. Vi si parla poco di sessualità in genere, di omosessualità mai. Ma allora da dove viene tutto l’accanimento moralistico che vedo attorno a me? Non riesco a cogliere l’oggetto del male riguardo al sesso. Mi sono chiari i motivi per cui non devo bestemmiare, odiare, rubare, far del male al prossimo, ma non riesco a capire perché la Chiesa (o Dio?) non vuole che si gioisca del e col sesso.
Personalmente mi sono impegnato a viverlo in contesti affettivi autentici, evitando ogni eccesso, promiscuità, pornografia e incontri occasionali in squallidi ritrovi. Però, in confessione, mi sono sentito dire che i legami con persone dello stesso sesso, che presuppongono una scelta di vita, sono più gravi delle cadute “volanti” o dei rapporti sporadici… E dire che quando ho vissuto qualche storia d’amore, mi sono sentito bene, in armonia con Dio e più disponibile col mio prossimo: insomma più sereno, vivo, equilibrato e in pace. Più che ritenermi in peccato, mi veniva da ringraziare il Signore per grazia ricevuta. Purtroppo non accade più da un bel po’ di tempo.
«Bisogna convogliare le proprie energie su altre cose, tenersi impegnati», mi ripete il buon confessore. Parole sante, facili a dirsi, ma il diavolo è sempre in agguato e le buone opere non annullano certe esigenze.
Insomma, è un bel tormento. In astinenza sono teso, irascibile, tutt’altro che caritatevole: che cosa se ne fa Cristo della mia purezza, se il prezzo da pagare è così alto? E non è una croce troppo pesante da portare? Me lo dica lei, padre, la prego, con il buon senso e la chiarezza che la contraddistinguono.
Abbonato di Brescia
Ritorno senza imbarazzi sul tema dell’omosessualità, nonostante il “rumore” suscitato qualche tempo fa da un altro mio intervento. Perché scandalizzarsi? Perché, soprattutto, negare una risposta e un aiuto a chi, come il nostro lettore, si chiede quali risposte può dare la Chiesa al credente omosessuale circa il comportamento che deve tenere per essere in linea con la morale cristiana?
E non si tratta di un caso singolo, da liquidare in sede privata. Del resto, che l’attenzione dell’opinione pubblica sia alta su problemi di questo genere è testimoniato anche dalla risonanza che ha trovato sulla stampa una serie di articoli che l’Osservatore Romano ha dedicato di recente alla condizione omosessuale, considerata dal punto di vista storico, psicologico, biologico, culturale, morale ecc. (Si tratta di ben 14 pezzi, firmati da esperti e pubblicati a cadenza bisettimanale dal 1° marzo al 23 aprile. Qualcuno mi ha pure scritto per sollecitarne la pubblicazione in volume. Giro la richiesta…).
Ma significativamente la reazione a questi dotti interventi è scattata solo quando si è toccato un punto molto specifico: la Chiesa permette o no che gli omosessuali vivano la loro sessualità con i comportamenti che il concetto abitualmente indica?
E quando i moralisti interpellati hanno ritenuto di dover concludere che il semaforo della dottrina morale della Chiesa restava fisso sul rosso, in alcuni ambienti si sono levate di nuovo alte grida di scandalo: come si può essere così disumani da condannare alcune persone a una continenza forzata, per tutta la vita?
Anche per l’abbonato di Brescia la risposta alla domanda relativa a ciò che è permesso o proibito nell’espressione della propria sessualità non ha il carattere di un dibattito di teologia morale, ma l’urgenza di un problema esistenziale.
Egli ci confida con candore e umiltà quanto è pesante il giogo delle pulsioni non soddisfatte: quella stessa condizione che san Paolo riassume in un verbo molto efficace, quando consiglia ai cristiani che vorrebbero vivere in castità ma non ci riescono di sposarsi piuttosto che ” bruciare” (1 Cor. 7,9).
Una volta riconosciuta la propria omosessualità, il lettore ha capito di avere la strada preclusa a un normale rapporto con l’altro sesso, a formarsi una famiglia, a un eventuale matrimonio, sia pure inteso soltanto come un “rimedio alla concupiscenza”. Ha compreso e accettato, dice, questa sua triste condizione “con serena rassegnazione” e “camminando tra le spine”, con ferite e cadute, porta pazientemente la sua croce.
Non ha però cessato di porsi e di porre domande sul senso delle sue rinunce. Si è messo addirittura a interrogare personalmente i vangeli per cercarvi una risposta adeguata. E, con sorpresa, ha scoperto che lì non ci sono regole e norme specifiche in tema di sessualità in genere e di omosessualità in particolare. Da dove viene allora, si chiede, tanto accanimento moralistico sul sesso e sulle sue diverse espressioni?
Soffermiamoci su questo aspetto che viene spesso trascurato. È vero, nel Vangelo i riscontri sulla morale sessuale sono scarsi anche se perentori (Matteo, così caro al lettore, ne parla con forza nel capitolo quinto e sesto).
Questa sobrietà non significa però che il Vangelo sia evasivo, ma che è pensato come risposta a domande di natura profondamente diversa rispetto alla richiesta concreta, ma di portata molto ristretta, che sta a cuore al lettore.
Il Vangelo vola più alto, più che di sesso parla di amore. In questione c’è la condizione umana, quella che è comune a tutti, uomini e donne, sposati o celibi, felicemente o infelicemente sposati, pacificamente o tormentosamente single. E a tutti viene proposto lo stesso ideale: «Amatevi come io vi ho amato».
Quel “come” fa tutta la differenza. Per quanto ci sforziamo di alzarci sulla punta dei piedi – formandoci un carattere, esercitando un dominio razionale sulle passioni, pregando come sappiamo e possiamo – non riusciremo mai a toccare, neppure con un dito, questo altissimo modello.
Peccatori che tendono all’ideale, non santi che l’hanno raggiunto: questa è la condizione normale dei cristiani. E più s’avvicinano all’ideale, più sentono il peso della loro fragilità come una “croce” da portare con sofferenza e speranza. Per questo, sono proprio i santi a ritrovarsi più dolorosamente insufficienti e a confessarsi sempre peccatori.
A questa “regola” nessuno sfugge, quali che siano il suo stato sociale, le sue condizioni di salute, i problemi di sesso e relazione che deve affrontare.
E non godono di particolari privilegi uomini e donne che, per essere sposati, possono scambiarsi in pienezza i doni d’amore; anch’essi, come tutti, sono soggetti alla tentazione, alla caduta, alla delusione, al senso di inadeguatezza rispetto alle esigenze del Vangelo. Non voglio con ciò sottovalutare la gratificazione gioiosa che la reciprocità del dono fisico può dare.
Del resto, anche il nostro lettore ha conosciuto questa esperienza e non esita a usare la parola “grazia” per definirla, pur riconoscendola in contrasto con l’insegnamento della Chiesa.
Ma, ancora una volta, l’amore è qualcosa di più e di diverso dalla sessualità, che ne è una componente non trascurabile ma neppure unica o preponderante. E questo amore può mancare o essere tradito anche nel matrimonio, anche in rapporti considerati “normali”: quando diventa solo sesso, valvola di sfogo da aprire periodicamente per liberarsi dalla pressione accumulata; quando considera l’altra o l’altro come un oggetto da possedere o da sfruttare per la propria soddisfazione, e non invece una persona di pari dignità.
Spero che le mie parole non appaiano oscure o reticenti al lettore e a quanti condividono la sua condizione. Può sembrare che tra domanda e risposta manchi la rima (la domanda era sul sesso, la risposta riguarda l’amore).
Ma è lui stesso che mi ha spinto su questo terreno ed è così che il Vangelo ci educa a diventare figli di Dio.
Il Vangelo innalza il livello delle risposte, si spinge ben oltre le “regole morali” (che non sono tutto, anche se la loro guida è necessaria per non smarrirsi nel dedalo degli istinti e delle pulsioni), perché noi impariamo a porre domande più elevate.