Quel no a re Salomone dalla donna del Cantico
Articolo di Armando Torno tratto dal Corriere della Sera” del 28 agosto 2012
Nella Bibbia c’è un libro che parla d’amore. È il più breve tra i testi sacri. Figura tra i ketüvîm («scritti»). Il suo titolo: Cantico dei cantici. Per secoli su di esso le interpretazioni si sono accumulate.
E ancora continuano. La tradizione giudaica lo ha inteso quale allegorica rappresentazione della storia d’Israele; quella cristiana, già nei primi secoli con i Padri, vi ha scorto la metafora della passione che unisce Cristo alla Chiesa.
Chi scrive, più semplicemente, desidera ricordare l’amore che si avverte in ogni sua pagina. Un amore non consumato. I sensi eccitati, anziché cercare requie nel godimento, interrogano la fede. La lettura si deve a Gianantonio Borgonovo, biblista e dottore dell’Ambrosiana; del suo lavoro, che ebbe una parziale pubblicazione in Maschio e femmina li creò (Glossa 2008), riportiamo lo schema, ché lo scavo filologico sul testo ebraico è ancora in corso. Diremo innanzitutto che in questa lettura del Cantico non si assiste al semplice incontro della sposa e dello sposo, come sovente riportano alcune traduzioni della Bibbia, ma si è di fronte a una sorta di libretto d’opera (Origene già lo intuì).
Proprio un canovaccio lirico non è, ma gli assomiglia. Ha un inizio sorprendente, intrecciato con frasi staccate, che sembra una danza. La vicenda si può riassumere così: entra in scena una donna che si presenta al Re (a Salomone, che ha un harem di 700 mogli e 300 concubine) per il matrimonio di quel giorno. Nel momento in cui dovrebbe giacere con lui nell’alcova, ella fugge. Sette sono i personaggi nel Cantico che ruotano intorno a questo amore che resta nel vento e non riesce a toccare i corpi.
C’è lei, la protagonista. Chi è? Forse una vignaiuola venduta all’harem; o una ragazza del contado catturata dalle guardie del Re. Con una gravidanza i suoi vantaggi si moltiplicherebbero, ma lei rinuncia. Poi vi sono le donne dell’harem: la invidiano e non le fanno mancare un certo disprezzo, giacché si nega al Re e continua a pensare al suo amato. Ed è proprio l’amato il terzo personaggio: assente nel dramma, vive solo nel ricordo, parla con la bocca dell’amata e appare in scena solo alla fine chiedendo fedeltà. Il quarto è Salomone, dal profilo faraonico. Giunge per il matrimonio di quel giorno e appena vede la giovane se ne invaghisce. Né manca l’inserviente dell’harem: è il quinto personaggio dell’ipotetico libretto, che ha il compito di preparare la ragazza (in Ester 2,12 si legge che tale pratica durava un anno). Sesto: le guardie del Re, sentinelle che annunciano o reprimono; nel versetto 5,7 del Cantico picchiano la protagonista. Settimo e ultimo: i fratelli della ragazza. Hanno intenzione di guadagnare il più possibile dal prezzo nuziale della sorella. Nel capitolo 8 si leggono anche i corrispondenti valori desiderati.
Borgonovo aggiunge: «L’unico genere letterario che assomigli al Cantico è la poesia d’amore amarniana, che si sviluppò tra il 1350 e il 1280 prima della nostra era e fu un’isola chiusa nella tradizione poetica egiziana». In calce a questo libretto d’opera, che diventerà scrittura nel periodo ellenistico sotto l’incalzare della magnifica letteratura greca, varrebbe la pena aggiungere che il Cantico è all’origine della stessa fede di Israele e — nota Borgonovo — «per parlare di monoteismo o di monolatria non ha trovato l’esperienza migliore della passione e della gelosia di una donna per il suo amato, ben espresse dal canto dell’amore invincibile che la ragazza innalza alla fine». Il riferimento è ai versetti 8, 6-7 dove si leggono anche le celebri parole: «Forte come la morte è l’amore».
Il sigillo ricordato in 8,6 è posto «sul tuo braccio», ma forse è qualcosa di più. Il vocabolo ebraico zr’, ovvero zéra o zeróa, può essere inteso sia come seme che come braccio: se si sceglie la prima ipotesi, allora la ragazza chiede al suo amato di esserle fedele totalmente, partendo dalla sostanza che trasmette la vita.
Uno dei massimi esponenti del giudaismo rabbinico, Aquiba, vissuto nel II secolo della nostra era, ha scritto che «il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico è stato donato a Israele» (Misnah, Jadayim 3,5). E quella ragazza, che non si concede a Salomone, ne è il vero simbolo.