“Questo matrimonio non s’ha da fare”. Essere famiglia
Recensione di Andrea di Crema del Progetto giovani cristiani LGBT del saggio di Mattia Morretta* “Questo matrimonio non s’ha da fare. Crisi di famiglia e genitorialità” (Viator, 2019), seconda parte.
Un dato ribadito a più riprese (di Mattia Morretta in “Questo matrimonio non s’ha da fare”, Viator, 2019) è che l’uomo e la donna sono differenti per natura sul piano fisico e psichico e dunque la loro tenuta assieme nel lungo termine è una prova ai limiti del possibile. La discordanza e la discrepanza biologica, psicologica, emotiva rendono quasi impossibile la conciliazione tra i due mondi (se non per pochi, con definite caratteristiche e attitudini).
Se il processo neuro-biochimico amoroso è a tempo (18 mesi) – e quindi dalla fusionalità voluttuosa alla compagnia insofferente il passo è breve – allora si capisce la lungimiranza della precedente e secolare pressione culturale sulle famiglie per desessualizzare il vincolo e concentrarsi sulla progettualità sociale dello stesso (funzione pubblica della genitorialità).
L’assoluto e l’eterno, nella concezione cristiana del matrimonio, aprivano un orizzonte agli sposi, che realisticamente oggi non esiste più.
Per un rapporto “a lunga gittata” non basta dunque l’intesa sessuale ed emotiva, come molti pensano, ma occorre un investimento umano e spirituale, dove ambedue i soggetti si aprano, crescano, maturino e sviluppino la loro personalità appieno. Ovviamente, questo comporta una condizione di stabilità psichica, motivazione, generosità, fiducia, stima, ascolto e umiltà reciproca.
Se la dimensione famigliare non è possibile per tutti, ancora più dannoso è stare insieme e restare comunque incompiuti, anomali, piccoli, dipendenti, immaturi. Di conseguenza la solitudine è un’opzione (naturale/intenzionale) altrettanto legittima e proficua, con annesso peso e fatiche esistenziali da affrontare tutte in prima persona. In ogni caso è importante proporsi di “essere in relazione e non averne una” per garantirsi una vita davvero matura e soddisfacente.
Ad ognuno la sua personale forma di relazione, a beneficio di sé e degli altri (se si ha il coraggio di guardarsi dentro e liberarsi). Se si crede davvero che ogni persona è unica, ciò riguarda anche per la sua affettività e sessualità, senza fare della “vita a due” un obbligo, bensì una scelta consapevole e non per questo meno meritevole e gratificante della castità (nel senso autentico del termine), con indubbi vantaggi nella autonomia, libertà e creatività personale.
Nella attenta analisi la famiglia contemporanea appare ridotta a “nuclei atomici senza passato e futuro”, tra amnesie e aprogettualità, isolamento e indifferenza generale, anche tra i congiunti e il più diretto prossimo.
Ciò implica una trasformazione della genitorialità, biologica e sociale, la fine della parentalità condivisa nella comunità, la falsa illusione dell’intercambiabilità dei ruoli genitoriali, la povertà di reti relazionali e sociali intorno alla famiglia, con pesante ripercussione sulla crescita e sull’equilibrio sentimentale dei figli, l’assenza di integrazione tra single, coppie e famiglie nucleari con figli (oramai monadi a sé). In parallelo crescono le famiglie atipiche e allargate in cui la prole può venire usata come scudo/arma strumentale.
In linea generale si evidenzia il rischio di vivere il figlio come replica, proprietà privata e mero prolungamento oppure accesso all’immortalità, il passaggio cruciale dalla coppia-diade alla famiglia-triade, l’abdicazione al compito educativo da parte degli adulti (la c.d. delega educativa), se non il vero disinteresse, l’indifferenza e l’odio (tra rovina, dannazione e disonore), il ruolo dei nonni nella educazione e crescita dei nipoti, non privo di faziosità e ambiguità.
“Per crescere un bambino ci vuole l’intero villaggio”, è un antico proverbio africano che può fungere da sintesi delle sezioni del libro relative alla genitorialità, alla parentalità e alla comunità con i minori.
Seppure non vi è la consapevolezza da parte dei neogenitori della insufficienza del bagaglio personale e psichico (con differenze sostanziali nella cura tra l’uomo e la donna del pargolo), questi vogliono essere e rimangono soli, spesso inchiodati per sempre alla sola fase di accudimento, senza far evolvere e maturare il figlio veramente, invece che mettere in circolo energie positive, costruendo una responsabilità e una progettualità condivisa; infatti, i figli devono sentire la coesione dei genitori (e non la divisione) e dunque una realtà mediatrice e protettiva, che si estenda ben oltre le mere mura domestiche (la comunità).
Se l’istinto materno e paterno non sempre sono presenti nell’uomo e nella donna (soprattutto nell’uomo dove è una funzione meno istintuale e più volitiva), è vitale incarnare e vivere la funzione materna e paterna almeno sul piano almeno simbolico, per tutti (creatori e non generatori di qualcuno o qualcosa); si pensi a quante persone cercano e percepiscono l’avere una “famiglia” da persone estranee alla famiglia in senso biologico (per sua natura insufficiente a contenere tutti i nostri bisogni).
* Mattia Morretta è psichiatra, psicoterapeuta e sessuologo, si è occupato di temi sanitari e sociali nel servizio pubblico e nel mondo del volontariato, di educazione alla salute nelle scuole e di formazione degli operatori, dedicando particolare attenzione all’omosessualità e al comportamento sessuale. Ha partecipato all’esperienza dei Collettivi omosessuali tra gli anni Settanta e Ottanta, è stato cofondatore e presidente dell’Associazione Solidarietà Aids di Milano e ha collaborato con la rivista di cultura omosessuale Babilonia.
Negli ultimi anni ha pubblicato saggi di impianto culturale: Che colpa abbiamo noi – Limiti della sottocultura omosessuale (2013), Tracce vive – Restauri di vite diverse (2016), Viva Dalida – Icona immortale (2017). Un vasto archivio di articoli e scritti è consultabile sul sito www.mattiamorretta.it