Relazioni. Non c’è identità personale senza relazione (Gn.2, 3; Mc 7, 24-30)
Lectio di don Giovanni Martini* tenuta all’incontro delle “7 parole” su “Le relazioni” (Gn.2, 3; Mc 7, 24-30) del gruppo Kairos di Firenze il 4 dicembre 2024
“Dalla Bibbia non si ricava una definizione dell’essenza dell’uomo, ma piuttosto un’articolata considerazione del suo essere quale soggetto di molteplici relazioni. In altre parole, si può cogliere ciò che la Scrittura rivela dell’uomo solo se si esplorano le relazioni che la creatura umana intrattiene con l’insieme del reale. La Laudato si’ di Papa Francesco (§ 66) parla di tre relazioni fondamentali, specificatamente quella con Dio, con il prossimo e con la terra.
Altre ne scaturiscono da queste, come quella del rapporto al tempo, al lavoro, alla legge, alle istituzioni sociali, e così via. È certamente utile dunque considerare le componenti dell’essere umano in se stesso, ma ciò va visto comunque sempre nel contesto di una serie di relazioni, così che l’uomo non venga considerato solo negli aspetti che lo caratterizzano come individuo singolo, ma anche nella sua condizione di “figlio” (di Dio e dell’uomo), di “fratello” e di collaboratore responsabile del destino di tutti.
E con ciò l’uomo è compreso nella sua “vocazione”, perché solo nella giustizia e nell’amore si realizza la natura della persona. Una tale considerazione sarà costantemente tenuta presente nello svolgimento del presente Documento”[1].
Non, è stato facile concretizzare questa Lectio di stasera, specialmente nel ricercare testi biblici di riferimento anche perché tutta l’autentica esperienza della fede Ebraico-cristiana ci parla di un Dio che è relazione. Basta pensare al concetto fondamentale del primo Testamento che è quello dell’Alleanza (berit)[2].
L’uomo (Adamo = il terrestre) o meglio l’umanità è creata come un qualcosa di profondamente relazionale , per la quale la solitudine è qualcosa di “non buono” ;
«Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda»[3].(Gn.2,3)
Un nuovo sviluppo narrativo viene marcato dalla constatazione divina espressa nella frase piuttosto sorprendente: «Non è bene (lō’ ṭôb) che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Rispetto al testo parallelo di Gen 1, nel quale ripetutamente risuonava l’espressione: «E Dio vide che era cosa buona (ṭôb)» (Gen 1,3.10.12.18.21.25.31), abbiamo in Gen 2 un diverso sistema espressivo, che incomincia da ciò che è incompleto e inadeguato per mostrare come la creazione raggiunga progressivamente il suo pieno compimento. Ciò che risulta imperfetto è il fatto che ’ādām sia “solo”. L’espressione avverbiale ebraica (lebaddô), tradotta con l’aggettivo «solo», se viene attribuita a Dio, indica il suo statuto di Essere unico e salvatore (Es 22,19; 1 Sam 7,3-4; Is 2,11.17; Sal 72,18; Gb 9,8), mentre, riferita all’uomo, esprime isolamento e impotenza (Gen 32,25; 42,38; 2 Sam 17,2). Per questa ragione, il Creatore viene in soccorso di ’ādām, fornendogli un «aiuto» (‘ēzer), o forse meglio un «alleato» (cfr. 2 Re 14,26; Is 31,3; Sal 30,11; Gb 29,12; Sir 36,24), che non solo lo liberi dall’idea presuntuosa di essere l’unico vivente sulla terra, ma soprattutto cooperi con l’uomo nell’attuazione del compito assegnatogli da Dio. Viene precisato che il Creatore vuole un aiuto che sia, alla lettera, “come di fronte a lui” (kenegdô). La locuzione ebraica – attestata solo in Gen 2,18.20 – ha ricevuto diverse traduzioni e interpretazioni; non essendo adeguatamente realizzata con la creazione degli animali (Gen 2, 20), essa viene perciò indirettamente applicata al rapporto tra uomo e donna (Gen 2,23) per esprimere parità e reciprocità. Nel contesto che stiamo commentando, e quindi in riferimento all’opera divina di plasmare gli animali, sembra si possa, per ora, più semplicemente affermare che il Creatore intenda aiutare l’essere umano mettendogli davanti un aiuto visibile, concreto, adatto a farlo uscire, almeno in qualche modo, dalla sua “solitudine”.
Da questo testo capiamo che l’umano è relazione, è alterità. Dove, la differenza sessuale è parabola di ogni alterità. L’umano è veramente tale quando vive la relazione ma ogni relazione di differenza comporta tensione e conflitto. Il rapporto uomo-donna è l’epifania della differenza e della reciproca alterità. Solo nella relazione l’umano trova vita e felicità, ma la relazione va imparata, ordinata, esercitata, perché in essa occorre dominare l’egolatria presente in ciascuno, che nel rapporto si manifesta come violenza.
Per il secondo capitolo del Genesi, che è il racconto più antico, dunque l’umano, è un essere in relazione con la terra da cui è tratto, con gli animali in quanto animale, con l’altro da sé che ha il suo stesso soffio di vita ricevuto da Dio e infine con Dio stesso . È in questo fascio di relazioni che l’umano, si umanizza.
Ma è intrigante anche il testo del primo capitolo di Genesi dove l’autore riflette prima della creazione dell’umanità; lo Ascoltiamo in una versione calco dell’ebraico:
“Ed ’Elohim disse: Facciamo ’adam in nostra immagine, come nostra somiglianza: dominino i pesci del mare, i volatili dei cieli, il bestiame, tutta la terra e ogni strisciante sulla terra. Ed ’Elohim creò ha-’adam in sua immagine, in immagine di ’Elohim lo creò, maschio e femmina li creò” (Gen 1,26-27).
Anche questo testo più recente ci ricorda che l’essere umano è in sé relazione. Gli umani sono immagine di Dio, ciascuno di loro nell’umanità di cui fa parte.
Ha scritto recentemente una brava Teologa Debora Rienzi :
“… Adam è ish e ishà, dove la radice ishsignifica “iniziare”, cui si aggiunge ah per ottenere “ ciò che procede da ish”, ovvero ciò che porta a compimento. C’è una progressione nella differenziazione, e la direzione è il compimento che non lascia indietro nulla. Rispetto al rapporto tra maschile e femminile, quello che qui emerge è la bontà della differenziazione in sé, cui non è necessario applicare un giudizio valoriale. Si tratta di riconoscere ed accogliere la realtà della differenza quale valore in sé, a superamento della tentazione, infantile sul piano evolutivo dell’omogeneità.
Simbolicamente, inoltre, “una” differenziazione sta per tutte le differenziazioni: è la differenziazione in sé che viene considerata, non il fatto che si tratti specificatamente di quella maschile e femminile, che qui assurgono da archetipi della diversità. La diversità va accolta nella sua molteplicità di forme, anche sul piano delle identità sessuali: ciascuno/a deve compiere questo passaggio di compimento verso la sua propria dimensione costitutiva…” (Debora Rienzi – Dio Rimane – Cittadella editrice 2023, pag. 166 )
Anche questo testo ci ricorda che l’essere umano è in sé relazione. Gli umani sono immagine di Dio, ciascuno di loro nell’umanità di cui fa parte, in sé sono uniti e si completano accettando la differenza reciproca.
Noi tutti siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio, siamo della stessa pasta, e una delle verità esistenziali della nostra fede è che il Dio in cui crediamo non è solitudine ma pienezza di relazione. In linguaggio “tecnico” noi diciamo che il nostro Dio è un Dio trinitario, è trinità o come amava dire Don Tonino Bello Tri-unità. È comunione di vita tra Padre-Figlio-Spirito Santo.
È stato scritto che Dio coinvolge l’umano, il terrestre, in una dinamica in cui le relazioni tra le persone della trinità sono tra loro in un rapporto di servizio, prossimità ,interdipendenza: un essere per, un essere con, un essere da un altro che definisce la loro identità appunto attraverso la loro relazione. Non c’è quindi identità personale senza relazione. Così è anche per ciascuno di noi, quando ci specchiamo gli uni negli altri e allo stesso tempo ci differenziamo, progredendo nell’autocoscienza della nostra identità.
E Gesù che ci rivela , con le sue opere, le sue parole e la sua corporeità, il vero volto di Dio che nessuno ha mai visto rimane per ciascuno di noi un faro che illumina le nostre esistenze. Seguendo Lui, assimilandoci a Lui noi diventiamo anche più consapevoli della nostra dignità.
Gesù ci offre tanti esempi di “uomo” in relazione. Non soltanto nella sua realtà divino-trinitaria perché rivolto da sempre verso il Padre , ma anche nella sua vera umanità capace di relazioni autentiche e liberanti con gli altri; tantissimi sono gli esempi
Con voi vorrei soffermarmi su un episodio che sempre mi ha colpito nel relazionarsi di Gesù e con il “diverso” da sé per comprendere meglio anche la sua identità e la sua missione.
“Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto. Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. Ed egli le rispondeva: “Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Ma lei gli replicò: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. Allora le disse: “Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”. Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato” (Mc 7,24-30).
Questo episodio che ci narra Marco è il culmine di un itinerario che vive Gesù e che fa avere a Gesù una svolta nella sua esperienza; è la prova di come l’incontro con l’Altro può cambiarci o meglio può farci comprendere meglio la nostra identità, può portare a compimento la nostra identità.
Qui Gesù compie un itinerario di una più profonda e piena comprensione di se stesso e della sua missione di essere Pane per tutti.
La donna è greca e siro fenicia . rappresenta al massimo una totale alterità rispetto a Gesù che è uomo ed Ebreo, appartenente al popolo dell’Alleanza. Infatti Gesù in prima battuta si auto-comprende come inviato, “prima” ad Israele e poi da Israele a Tutti i popoli.
Ma l’insistenza della donna “la sua Parola” o per Matteo la sua Fede, provoca un evento; che non è soltanto la guarigione della figlia, ma anche una “conversione nel modo di pensarsi di Gesù come Messia”. Gesù capisce dall’incontro con l’Altra/o da sé che il suo essere messia è un essere Messia per tutti.
Alcune suggestioni:
- Che cosa l’altro/a dice della mia identità?
- Come mi rapporto alla fede dell’altro e alla fede altra?
- L’incontro con l’altro se è autentico produce salvezza e non necessariamente né conversione ne seduzione.
* don Giovanni Martini (di Mario), parroco a firenze della parrocchia di Santa Maria al Pignone è Direttore dell’Ufficio Diocesano per le Migrazioni.
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[1] Pontificia Commissione Biblica, «Che cosa è l’uomo?» (Sal 8,5). Un itinerario di antropologia biblica, 2019, n.10
[2] Il termine alleanza in ebraico si dice berith, e sta a significare esattamente “tra due”; alcuni la fanno derivare dalla parola barah, che significa mangiare e anche decidere, impegnarsi. Questi riferimenti ci fanno capire che l’Alleanza è qualcosa che avviene tra due soggetti, che però ha attinenza anche con un pasto e con una decisione e un impegno.
[3] (ʿēṣer kenegdô). L’espressione ebraica è stata tradotta in diversi modi:
1. Il termine «aiuto» ʿēṣer compare nell’AT 21 volte. Nella massima parte dei casi è un predicato che ha Dio come soggetto .
2. sia nel senso soggettivo di «aiuto di Dio» (Dt 33,26; Os 13,9; Sal 20,3; 89,20; 121,1.2; 124, 8; Dn 11,34), sia anche nel senso di titolo divino (Es 18,4; Dt 33,7.29; Sal 33,20; 70,6; 115,9.10.11; 146,5): in contesti soprattutto poetici; con un soccorso di tipo personale e non materiale; in situazioni di pericolo mortale; quando il soccorso è indispensabile per non cadere nella morte.
Di conseguenza il termine ebraico esprime qualcosa di indispensabile per superare la solitudine e non di facoltativo; inoltre si tratta di un sostegno o un appoggio che solo una persona può offrire all’altra (cf. Qo 4,9-11). La relazione all’altro da sé, allora, non è un optional, essendo ogni ʾādām fatto per la relazione, il dialogo, la condivisione, la reciprocità con altri ʾādām.
L’espressione non solo porta in sé solo l’idea di complementarietà o di somiglianza e quindi di pari dignità e uguaglianza, ma esprime anche alterità e reciprocità. La si potrebbe tradurre come in parte come fa il Targum Jonatha: «un aiuto che gli stia davanti» perché possa avvenire l’incontro. Enzo Bianchi spinge ancora più in là questa interpretazione e legge la preposizione neged con il senso di «contro», per cui propone: «aiuto contro»
3. Ogni persona è «l’altro da sé», il «tu» che sta di fronte (letteralmente: «come il suo fronte») e che permette il dialogo «a tu per tu». In questo senso, la donna è proprio l’aiuto adatto all’uomo, perché pensata voluta proprio così da Dio («gli voglio fare»).