«Resta con noi, Signore, perché si fa sera» (Lc 24,29)
Meditazione di Luigi Testa* fatta ai Piccoli fratelli dell’Accoglienza il 18 giugno 2025
«Resta con noi, Signore, perché si fa sera» (Lc 24,29). Il desiderio della sera – il desiderio di quest’ora, in cui il caldo della giornata si stempera e si disperde nella luce dolce del tramonto – il desiderio di ogni sera è sempre e solo questo: «Resta con noi».
Al tramonto, non riusciamo a stare da soli – al tramonto di queste giornate di giugno; al tramonto della vita; al tramonto di quello che è stato bello, eppure passa; al tramonto di ogni abbraccio, che pure si scioglie; al tramonto di ogni bacio, che pure finisce. Nostalgia di qualcosa che non passi, mentre tutto – il giorno, il sole, ogni abbraccio, ogni bacio – finisce.
«Resta con noi, Signore, perché si fa sera», e il buio ci fa paura, e la stanchezza del giorno pesa, e le mancanze graffiano. «Egli fece come se dovesse andare più lontano – fece finta di proseguire, finxit se longius ire» (Lc 24,28).
Fai finta di andar via, mentre il cuore, con battito accelerato, scoppia dalla voglia che ti diciamo: «Ma dove vai, resta con noi, resta con me». E forse conosciamo il battito triste, morto, che il Tuo Cuore avrebbe avuto se non ti avessimo detto «Resta con noi» – se ti avessimo lasciato andare, nella tua finta.
In quest’ora della sera in cui le voci si stemperano e i rumori si disperdono, si può sentire finanche questo: il battito di un cuore. D’altra parte, questa è l’ora delle tenerezza, l’ora delle carezze, delle parole sussurrate, delle confidenze.
Questa è l’ora in cui puoi riposare sul mio petto (Ct 1,13), e io posso darti le mie carezze, mentre fuori sbocciano i fiori e fioriscono i melograni (Ct 7,13).
Permettete che mi perda un attimo, mentre sento la sensazione quasi fisica della brezza leggera che, a quest’ora, camminando su e giù per Gerusalemme, arriva dal deserto e prepara una notte che sarà insolitamente fresca per noi che non ci siamo abituati, dopo il caldo torrido che c’è stato nella giornata.
La luce del sole scivola ormai dolcemente, come carezza d’oro, sul bianco delle pietre. Tu percorri il sūq che ormai si sta svuotando, e ti ritrovi nella piazza del Santo Sepolcro dove gli ultimi pellegrini escono dalla Basilica, prima che chiuda.
Entri, lasciandoti alle spalle la luce della piazza e il verso di alcuni uccelli; ti investe il profumo del nardo e della mirra versati in eccesso sulla pietra dell’unzione – quanti eccessi ho fatto per altri che non erano Lui, mentre Lui solo meritava quello sperpero.
Vado dritto all’edicola del Sepolcro; entro, sto in ginocchio, e ci poggio la testa, come un bambino, con gli occhi socchiusi, pregando che – per magia che non conosco – possa ancora sentire i battiti del Suo Cuore.
Nel piccolo spazio della tomba, i rumori sono amplificati. Posso ascoltare meglio anche il battito del mio cuore, così piccolo, così bambino. Ne sento i battiti accelerati di quando sono innamorato, di quando mi perdo nell’abbraccio di chi amo, di quando spero che l’altro mi dica ‘sì’.
Sento il battito affaticato delle mie sere vuote, dei desideri appesi, sospesi, dispersi. Il battito stanco dei nomi di chi c’è stato e ora non c’è più, mentre li ripeto ancora come uno stanco appello, e tutti li accarezzo ancora.
Sento il battito del mio amore intermittente, dei miei tradimenti, delle mie fughe, delle mie meschinità. Sento il battito triste di quando sono stato tradito, di quando sono stato ferito, forse anche con leggerezza, senza che l’altro se ne accorgesse. Il battito emozionato, impacciato, dell’istante che precede un nuovo primo bacio.
Sento il battito che si ferma, quando sono geloso. Lascio che questi battiti – nel loro duplice movimento, rilassamento e contrazione, diastole e sistole – riempiano lo spazio dell’edicola, mentre tengo ancora la testa posata sulla pietra del Sepolcro, impregnata di nardo versato per secoli – secoli di sperpero, secoli di tenerezza versata, secoli di baci, di lacrime, in cui ora mi inserisco anche io, e Tu ancora mi difendi dagli altri: «Lasciatelo stare» (cfr. Mc 14,6). E mentre sto poggiato sul Tuo petto d’avorio (Ct 5,14) e fuori ormai la luce quasi non c’è più, sento, piano e sempre più forte, un altro battito, altre diastole e sistole.
Tante volte son stato poggiato sul petto della persona che amavo, e, forse con voce da bambino, ho detto: «Si sente il cuore!». Si sente il Cuore, e riconosco i battiti. I battiti dell’emozione, quando sceglievi e chiamavi Pietro, Giacomo, Giovanni. I battiti della tristezza, mentre ti insultavano, e tu, come un dolcissimo bambino, ti chiedevi solo «…ma perché?».
I battiti affannati della festa, mentre danzavi con tua madre e con i tuoi amici, a Cana. I battiti affaticati, davanti alla vedova, davanti al padre che ti chiedeva la vita per la figlia, davanti alla madre che si accontentava solo delle briciole.
I battiti affannati in quella sera di ultima intimità con i tuoi, nel cenacolo – e forse, quando mi lavavi i piedi, il tuo era un ultimo disperato tentativo di aggrapparti fisico a me per non franare nell’abisso; il tuo modo di dirmi sottovoce «Salvami».
Se avessi saputo che quella notte era l’ultima notte, l’avremmo passata abbracciati. Si sente il Tuo Cuore che si ferma, sospeso, mentre l’amico ti bacia la guancia, sotto la luna che si riflette sulle foglie lucide degli ulivi.
Il Tuo Cuore che vorrebbe scappare quando incontri tua mamma lungo la via, perché forse almeno questo avresti voluto risparmiarglielo.
Si sentono i battiti di gioia, quando – passato l’incubo della notte, ancora col capo bagnato di rugiada e i riccioli di gocce notturne (Ct 5,2) – incontri di nuovo Maria, di nuovo Giovanni, di nuovo i tuoi. Hai voluto avere un cuore come il mio – di carne – perché non ci fosse nulla, nella mia umanità, di cui io possa dire «Che ne sai tu, Gesù…».
Nessun battito, nessun palpito, nessuna sistole o diastole, che non sia stato anche – e prima – tua; che Tu non capisca; che Tu non comprenda. Avremmo fatto fatica a credere al Cuore del Padre che ci dice «Tu sei prezioso ai miei occhi» (Is 43, 4), se non avessimo potuto sentire il battito del Tuo Cuore di carne mentre ce lo ripeti guardandoci negli occhi.
Sarebbe stato difficile sentire il Cuore del Padre che ci dice «Io ti amo» (Is 43, 4), se non avessimo potuto ascoltare il battito accelerato, emozionato, del Tuo Cuore di uomo, mentre ce lo dici nell’intimità della sera, quando siamo soli io e Te. Già, il Padre.
Mi è parso sempre più chiaro negli ultimi anni che il mio rapporto con Te non può fare a meno del Padre. D’altra parte, ne parli con gli occhi così innamorati, e forse mai il Tuo Cuore batte con più amore di quando parli di Lui, che capisco che dev’esserci qualcosa di bello, qualcosa di grande, nel Cuore di questo Padre. E poi, se somiglia a Te, non potrò che innamorarmi anche di Lui.
Ho trovato il modo per tirare tra noi anche il Padre quando, poco meno di un anno fa, in un corso di esercizi, mi si chiedeva di affiancarmi al Signore Gesù nei Suoi momenti di crisi, e di consolarlo.
Eravamo nel giardino degli ulivi, di notte; Pietro, Giacomo e Giovanni erano poco più in là, e dormivano; e Gesù era terrorizzato, spaventato, perso.
Dinanzi ad una fatica così, io non so consolare; sono maldestro; non so che parole dire. Quando qualcuno mi mette tra le mani un dolore così, io la prima cosa che faccio – e forse l’unica che so fare – è pregare. Se le altre volte, però, la mia preghiera è al Figlio – è con Lui il mio dialogo – questa volta a chi avrei dovuto raccontare, nella preghiera, il Suo dolore?
Ho cominciato allora a parlare, finalmente, al Padre: «Guarda il dolore di Tuo Figlio. Guarda l’Amore di Tuo Figlio. Guarda la Sua paura, il Suo strazio. Consola Tu il Suo pianto». Questa scoperta mi aiuta, quest’anno, a vivere la devozione al Sacro Cuore di Gesù, in questo mese di giugno, “tirandoci dentro” il Padre.
Mentre sto con la testa posata sul Suo Cuore e ne ascolto i palpiti, posso parlarne a Lui, al Padre. Posso raccontargli di come si sente il Cuore del Figlio mentre piange per il Suo amico Lazzaro.
Posso raccontagli di come batte il Cuore del Figlio mentre guarda i Suoi amici, più preziosi dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo (cfr. Mt 6, 26-28), ed è contento di fare le strade del mondo insieme a loro.
Posso raccontare al Padre i battiti del Cuore del Figlio – battiti di amore, battiti di dolore, battiti di emozione, di allegria, di desiderio, di paura, di solitudine.
L’orazione al termine delle Litanie del Sacratissimo Cuore comincia pregando così: «Respice in Cor dilectissimi Filii tui – guarda, Padre, al Cuore del tuo Figlio amatissimo».
Posso chiedere al Padre di guardare a questo Cuore, di sentirne con me i battiti, e dinanzi all’amore appassionato con cui batte per noi il Cuore del Figlio, non ci sarà più giudizio, non ci sarà più condanna, più esclusione: l’amore del Cuore del Figlio ci conquisterà per sempre l’amore del Cuore del Padre. E al Padre posso anche raccontare la scoperta forse più difficile da realizzare: che il Cuore del Figlio anche in questo mi è simile, nel Suo bisogno di sentirsi amato, nella Sua mendicanza d’amore.
Forse i Suoi battiti non hanno vibrato così tanto di emozione, di desiderio e di paura, come in quegli istanti sospesi in cui attendeva la risposta a quella sua domanda – a Pietro, a me: «Mi ami tu?» (cfr. Gv 21, 15 ss). E quella mendicanza d’amore si è prolungata nei secoli, e ancora percorre, come respiro che anima la storia, ogni nostro giorno: «Almeno tu, amami» (Santa Margherita Maria Alacoque, “Rivelazioni”, 1673).
Anche in questo il Suo Cuore di uomo è uguale al nostro: di entrambi, la cifra costitutiva è il desiderio di essere desiderati; è qualcuno che ci dica – che mi dica, che Gli dica – : «Io non posso fare a meno di te». Il nostro cuore lo desidera, in ciascuno di noi; chi lo dirà al Tuo, Gesù?
Dunque, dovrò dire al Padre anche di come è triste il Cuore del Figlio quando fa la finta di dover andare oltre e nessuno gli chiede «Resta con noi».
Dovrò raccontare al Padre come si fa greve il battito del Cuore del Figlio mentre, con broncio triste da bambino, si lascia scappare «Non mi hai dato neanche un bacio…» (Lc 7,45).
Avrò da parlare con il Padre di tutte quelle volte in cui, la sera, poggiato con la testa sul Suo petto, Egli mi racconta dell’amore che ha mendicato e non ha ricevuto, delle carezze che ha cercato e non gli son state date, dei cuori cui ha bussato con l’entusiasmo di voler stare insieme, senza, però, che gli fosse aperto (cfr. Ap 3,20).
E il Padre cosa mi dirà, quando gli racconterò di questi battiti tristi? Forse mi dirà: «Su, forza, consolalo tu. Se oggi ha cercato carezze, e non gliene hanno date, dagliene tu ora. Se oggi nessuno gli ha chiesto “Resta con noi”, diglielo tu ora, dieci, cento, mille volte.
Se oggi se n’è andato triste perché non gli hanno dato neanche un bacio, mangialo tu ora tutto di baci, come fanno i bambini o gli amanti». C’è una parola del mese di giugno – che dovremmo portarci con noi tutto l’anno – che dobbiamo liberare da certe incrostazioni e rifare nostra: «riparazione».
Non è tra i meriti minori di Papa Francesco quello di avercela riconsegnata nella sua ultima enciclica, sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo, Dilexit nos. E lo fa con parole bellissime.
Scrive: «Il rifiuto della nostra libertà non permette al Cuore di Cristo di dilatare in questo mondo le sue “ondate di tenerezza”» (197); e propone di «offrire al Cuore di Cristo una nuova possibilità di diffondere in questo mondo le fiamme della sua ardente tenerezza» (200).
Spesso, i più attenti, distinguono il piano della consolazione – che è quello cui sembra riferirsi più specificamente Papa Francesco nelle parole citate – da quello della preghiera di intercessione, soprattutto nella forma di richiesta di perdono, per i fratelli.
Su questo secondo versante, mi torna alla mente la preghiera, piena di confidenza audace, di don Luigi Orione, che, giovane sacerdote, chiedeva al Signore di poter fare da «coperchio all’inferno», perché nessuno dei suoi fratelli ci finisse dentro. In realtà, forse, almeno sul piano spirituale, più che distinti, consolazione e intercessione sono collegati, e stanno insieme nel medesimo impegno di riparazione.
Ho in qualche parte dentro di me, dai confini un po’ confusi e vaghi, forse perché l’ho visto fare da piccolo o magari l’ho fatto proprio io, ed è certamente quello che a volte mi ritrovo ancora a fare – bambino mai cresciuto –, l’immagine di chi si sforza di consolare l’altro, triste per un’offesa ricevuta o per una non corrispondenza d’amore, inscenando una clownesca moltiplicazione di attenzioni, di baci, di carezze, di parole d’amore, quasi perché questo torrente travolga l’altro, distraendolo da ciò che l’ha ferito, deluso, amareggiato. Voglio fare così, con te, Gesù.
Come un clown, moltiplicherò l’amore, inventerò nuovi modi, nuovi baci, nuove tenerezze, per non farti pensare ai baci che non hai ricevuto, ai cuori che non ti hanno aperto, all’amore che non è stato ricambiato.
Esagererò, strafarò, per non farti sentire la mancanza di altro – la mancanza di altri; per distrarti dalle infedeltà o dalle mancate corrispondenze. Così, non potrai che ridere, arrenderti alla mia tenerezza di bambino che ti vuol bene, ti tornerà il sorriso, non penserai ad altro, e ti dimenticherai anche delle ferite e dei disamori.
Ti darò così tanti baci, fino a quando non dimenticherai i colpi, e il Tuo sorriso perdonerà tutto. Così, consolazione e intercessione per il perdono dei fratelli stanno insieme.
Sono ancora le parole di Papa Francesco: «Se è vero che la riparazione implica il desiderio di risarcire gli oltraggi in qualsiasi modo recati all’Amore increato, per dimenticanza o per offesa, il modo più appropriato è che il nostro amore offra al Signore una possibilità di espandersi in cambio di quelle volte in cui è stato rifiutato e negato» (200).
Per ottenere il perdono delle dimenticanze e delle offese, ci si offre per prendere su di sé l’Amore e la Tenerezza che il Suo Cuore non è riuscito a riversare. È questa, d’altra parte, la particolare “offerta di vittima” che fa di sé Teresa di Lisieux: «Mi offro come vittima di olocausto al tuo amore misericordioso, supplicandoti di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima le onde di infinita tenerezza che sono racchiuse in Te, così che io diventi martire del tuo amore, o mio Dio».
Teresa vuole essere l’estuario in cui si riversa l’amore e la tenerezza del Cuore di Gesù, perché neanche un’onda ne vada perduta per il rifiuto dell’uomo, neanche un goccia nel vuoto. È come se dicesse: «Quello che gli altri rifiutano, lo prendo io, dallo a me». E mi viene un pensiero: l’Eucaristia. Non posso dimenticare che, mentre la giornata finisce, entriamo nella solennità, così dolce, del Corpo e del Sangue del Signore, il Corpus Domini.
La comunione sacramentale che facciamo a quel Corpo è sacramento di come il Suo Amore si doni, si riversi, tutto – ma proprio tutto! Dio non si divide – in ciascuno di noi, come se fosse l’unico. Nella comunione eucaristica Egli si dà tutto – tutto il Suo Corpo, tutto il Suo Sangue, tutta la Sua Anima e Divinità, tutto Se stesso, tutto il Suo Amore – a me che lo ricevo: «non concisus, non confractus, non divisus: integer accipitur; non è spessato, non è sparpagliato, non è diviso: si riceve tutto intero» (“Lauda Sion Salvatorem”).
Tutte le onde della infinita tenerezza del Suo Cuore inondano il mio cuore e tutto me stesso, quando lo ricevo in me. Sono io il termine ultimo di tutto il Suo Amore infinito. E io, lì, posso farmi estuario di tutto il Suo desiderio di darsi, di tutta la Sua sete di amore, di tutto il desiderio di essere desiderato che Egli porta nel Suo umanissimo Cuore.
Posso farlo perché in realtà io non sono solo, ma io sono tutta l’umanità, io sono tutto il creato, io sono diventato uno in Lui che è Uno, e che, con la Sua incarnazione, mi trascina e mi coinvolge nella dinamica dell’assunzione di tutta l’umanità. In Lui, la mia funzione sacerdotale è quella di assumere tutta l’umanità, tutto il creato, ogni valore umano, ogni persona – abbracciare tutto – essere uno con tutto – e tutto portare al Padre, per Cristo, con Cristo ed in Cristo.
Non sono diviso da nessuno dei fratelli e delle sorelle, e come devo essere solidale con loro nella responsabilità – da qui, la necessità che io chieda perdono insieme a loro, e non semplicemente per loro –, posso metter su una stupenda solidarietà nella risposta d’amore al Cuore del Signore. Posso amarlo non solo per me, ma anche per chi è assente.
Posso, nella comunione eucaristica, riceverlo non solo io, ma riceverlo come Luca, come Serena, come Paolo, come Alessia, come mille sconosciuti, dilatando sempre più il mio cuore, perché sia capace di ricevere quante più onde della Sua Tenerezza. Posso, oltre ai miei baci, dargliene altri: «Questo te lo manda Fabrizio; questo è da parte di Claudia; questo di Marco…». È un gioco? Forse. Ma davvero pensiamo di poter fare di più? Davvero pensiamo di poterlo amare sul serio, come ci ama Lui?
Davvero pensiamo che Egli ci chieda altro che giocare con Lui, come bambini? Mi emoziona ogni volta leggere che, all’inizio della creazione, la Sapienza giocava davanti a Dio, sul globo terrestre, ogni istante (Prv 8,30-31), «ludens in orbe terrarum». E poi, no: sono convinto che non sia un gioco.
Mentre fuori ormai è buio, è tempo di lasciare il Sepolcro, e di perdersi nelle strade ormai deserte di Gerusalemme, in cui il Tuo Cuore ha camminato con battiti di innamorato non ricambiato: «Quante volte avrei voluto, ma tu non hai voluto…» (cfr. Mt 23,37).
Prima di staccare la testa – ancora poggiata come un bambino – dalla pietra profumata della tomba, ci facciamo la promessa di sempre: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio» (Ct 8,6).
RIo lo chiedo a te: «Mettimi, Gesù, come sigillo sul Tuo Cuore, su cui voglio stare sempre posato» – e Tu lo chiedi a me: «Mettimi, Luigi, come sigillo sul tuo cuore – il tuo cuore piccolo, il tuo cuore incostante, il tuo cuore che scappa – perché tanto, ovunque scapperai, avrai sempre la sorpresa di scoprire che io sono arrivato prima di te».
Poso le labbra sulla pietra, con un bacio che non finisce più, perché arrivi al Tuo Cuore e alle Tue labbra, insieme a tutti i baci che altri non ti danno, e insieme a tutti i baci che vorrei dare ad altri. Amen.
*Luigi Testa è autore di testi a carattere giuridico e scrive su alcuni quotidiani nazionali. “Via crucis di un ragazzo gay” (Castelvecchi, 2024) è il suo primo libro di natura spirituale, altre sue riflessioni sono pubblicate anche su Gionata.org