Ricordando il mio amato. Ucciso dall’Aids e dal disprezzo della sua famiglia
Testimonianza di Anon (Honduras) tratta dal sito Avert.org, liberamente tradotta da Giacomo Viggiani
Salve, abito nell’Honduras, un piccolo paese del centroamerica, ho 35 anni e sono bisessuale. Questa non è la mia storia, ma quella del mio partner, morto il 2 Ottobre 2007. Era sieropositivo e mi ha infettato. Quando scoprii che ero sieropositivo (il 18 Giugno 2007) nessuno di noi era a conoscenza della situazione, anche perché ci eravamo lasciati nell’Ottobre 2006 e, per quanto lo amassi, non avevo cercato di rivederlo.
Una settimana, dopo il 18 Giugno, andai a cercarlo a casa sua, per informarmi sulla sua situazione di salute, ma non riuscii a vederlo e allora decisi di parlarne ad un suo familiare, deciso a non tornare indietro e a affrontare questo problema.
Il 4 Ottobre 2007 ricevetti una chiamata che mi informava della sua morte e rimasi scioccato, non lo avevo visto per un intero anno e pensai che fosse naturale che fosse morti di AIDS. Andai a casa sua, e piano piano scoprii le disumane circostanze in cui era morto. All’inizio, preso dal dolore e con gli occhi umidi di pianto, chiesi delle foto di lui e ne trovai un paio bellissime, scattate nel Maggio del 2007, dove lui sorrideva, giocando coi suoi bambini, col suo cane, e sembrava così pieno di vita. Allora pensai che il suo rapporto con la famiglia fosse cambiato dopo che gli aveva rivelato la sua sieropositività.
Mi incontrai segretamente con una persona che lavorava presso la casa della sua famiglia e scoprii che gli davano da mangiare sempre nello stesso piatto, con le stesse posate e da bere nello stesso bicchiere; ben presto maturai l’idea che fosse stato isolato dalla sua stessa famiglia. Il suo rasoio, come anche il suo spazzolino stavano sempre tra la spazzatura e nessuno si interessava delle sue pillole. Egli si sentì così maltrattato nella sua stessa famiglia che, un giorno di Settembre, ebbe un violento alterco con sua moglie, così forte che se ne andò di casa, erano le 17.00 e non tornò fino alle 3.00. Era costretto a dormire su un sofà coperto da un semplice nylon, perché era incapace di trattenere le sue feci, tutto ciò non faceva certo bene ai suoi reni che erano in parte compromessi.
Aveva perso tutta la sua voglia di vivere e, ad un certo punto, anche la ragione: non era più in grado di riconoscere i membri della famiglia, i suoi amici, o i suoi tre piccoli figli, che una volta abbracciava e baciava ogni volta che poteva, mentre la famiglia cercava in tutti modi di tenerli lontano da lui per paura che fossero infettati. Ad un certo punto smise si assumere gli antiretrovirali, ma nessuno se ne curò, nessuno si interessò al fatto che, ogni volta che spostavano il sofà su cui dormiva, comparivano da sotto i medicinali non utilizzati.
Una settimana prima che morisse, dopo aver avuto una discussione con la sorella maggiore che voleva cacciarlo di casa per la sua sieropositività, verso le 10:00 del mattino, raggiunse come poteva, trascinandosi attraverso tre isolati, la casa di un suo vecchio amico. Piangevo mentre il suo amico mi raccontava queste cose e il mio stato d’animo peggiorò quando mi disse che non era la prima volta che lo cacciavano di casa e che era stato anche costretto, la prima settimana di Settembre, a dormire tre notti per strada come un barbone. Fu poi ritrovato da alcuni amici della moglie, i quali lo gettarono come un animale agonizzante in un posto molto simile ad un rifugio abbandonato, dove morì solo, con un’ infinita tristezza nello sguardo, con gli occhi spalancati al cielo e con in mano una foto dei suoi tre figli.
Nei sette anni in cui eravamo stati insieme, mi aveva confessato di temere di morire solo in ospedale, o di morire abbandonato da tutti, cosa che realmente accadde, e che mi ferì moltissimo. Un paio di giorni dopo la sua morte, mi recai al cimitero a visitare la sua tomba, a dire alle sue spoglie quanto lo amavo e che lo avrei amato per sempre. Ma ancora una volta ebbi prova del disinteresse della sua famiglia. La sua tomba non era stata nemmeno completamente coperta dalla terra, io stesso dovetti ritornare con una vanga per completare la sepoltura.
Seppi anche che aveva nominato molto volte il mio nome e quello di mia madre, ma i suoi familiare si erano sempre rifiutati di chiamarmi. Ho pianto per molte settimane, finché ho realizzato che le mie lacrime non lo avrebbero riportato indietro, che avevo ancora una vita da vivere, e che la volevo vivere. Spero che le persone capiscano prima o poi che non siamo contagiosi, che siamo sì malati, ma che baci e strette di mano non trasmettono il virus. Forse questa storia potrà aiutare a rendere le persone più consapevoli. Grazie
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Testo originale: Anon, Honduras