Riformarsi o morire. Le teologhe aprono al futuro
Articolo di Blandine Ayoub pubblicato sul sito cattolico Saintmerry hors les murs (Francia) il 17 dicembre 2023, liberamente tradotto da www.finesettimana.org
Sette teologhe per un unico libro: “Se réformer ou mourir” (Riformarsi o morire). E’ il titolo di un saggio appena pubblicato da Salvator, i cui sette capitoli sono firmati da sette teologhe: Laure Blanchon, Isabelle de La Garanderie, Véronique Margron, Anne-Marie Pelletier, Lucetta Scaraffia, Anne Soupa et Marie-Jo Thiel. I loro approcci (biblico, teologico, sociologico e pastorale) fanno riferimento a diversi aspetti della vita della nostra Chiesa, la cui barca “prende acqua da tutte le parti”, come già diceva il cardinale Ratzinger nel 2005 – in riferimento alla secolarizzazione e al drastico calo della pratica e delle vocazioni, a cui si è aggiunta la crisi degli abusi sessuali e spirituali.
Una serata di presentazione con cinque di loro si è svolta martedì 12 dicembre scorso al Centro Sèvres. E’ stata introdotta da Marc Leboucher, editore del libro, e animata dal gesuita Guilhem Causse – in presenza di molte donne, tra cui alcune teologhe, e diversi uomini. Di fronte a questa situazione sistemica implosiva, ci troviano, come descrive il Deuteronomio. Siamo sul punto di scegliere tra logiche di vita e logiche di morte. E sentiamo un grande bisogno di intelligenza teologica per tracciare il cammino di speranza e di futuro.
Abbiamo assistito al crollo della fiducia nei confronti dei preti, ai quali si rimprovera di sentirsi di essenza superiore pur avendo perso ogni credibilità morale. La CIASE ha messo in evidenza l’aspetto sistemico degli abusi nei confronti dei bambini e delle donne, in particolare di religiose, alcune delle quali sono perfino state costrette ad aborti.
Ecco alcuni dei contributi delle teologhe scriventi.
Per Véronique Margron, noi teologhe dobbiamo essere in stato di vigilanza sistemica, attuare un ascolto istituzionale. Perché una parola comincia appena ad essere ascoltata (settemila persone ascoltate sulle duecentomila vittime presunte). La domanda è: come prestiano orecchio? Questa situazione ci sconvolge quando ci lasciamo toccare nel profondo. Dobbiamo sperare in una riforma che impedisca di ricadere in quei crimini – perché non si può più amare, pregare, vivere come prima.
Anne Soupa insiste sull’inferiorizzazioe e sulla invisibilizzazione generali delle donne nella Chiesa e su quelle degli uomini laici e dei bambini, del resto. Coinvolta direttamente nel problema, ha creato con Christine Pedotti nel 2008 il Comité de la Jupe, in seguito ad un’osservazione sessista di André Vingt-Trois. Fa riferimento a numerose teologhe precorritrici sul tema.
Nonostante Gaudium et spes, che non faceva discriminazioni di genere, il Vaticano non ha ripreso le raccomandazioni della Conferenza mondiale sulle donne dell’ONU (1995). Rifiuta il voto delle religiose nelle sue assemblee. Ma la religione non può impunemente andare contro l’emancipazione delle donne che è un dato della nostra società. Altrimenti è la Chiesa stessa che rischia di sparire, o di “diventare una setta”, come diceva Hans Küng. Francesco ha cominciato a far muovere le cose; ma le donne non vogliono uno sgabellino, vogliono che il loro posto sia riconosciuto.
Anne-Marie Pelletier ricorda che il problema delle donne emerge nel mondo, mentre sembra che la Chiesa non sia attenta a tale problema: tanto aveva promosso le donne nel tempo della Chiesa primitiva, tanto oggi appare assumere il ruolo dell’autoritarismo – non fosse che sulla questione dell’aborto.
Laure Blanchon constata che le grida di dolore possono soffocarsi a vicenda, e che quelle dei più poveri restano quasi inudibili. La miseria rende la parola vulnerabile: non vogliamo ascoltarla.
Dobbiamo convertirci, farci prossimi, dedicare tempo al camminare insieme e creare rapporti di fiducia con i più poveri; decidere di ascoltarli, anche se la cosa ci disturba. Come ripete Isabelle de La Garanderie, il grido non può umanizzarci se noi ci poniamo al di sopra.
Isabelle de La Garanderie constata una mancanza flagrante di dibattiti nei luoghi di Chiesa. L’annuncio del titolo del libro ha del resto scatenato reazioni sui social estremisti. Il mondo non ci conosce più, noi cattolici, ma noi lo giudichiamo dall’alto. E, all’interno, abbiamo paura del dialogo, molti non hanno partecipato al Sinodo. La cultura del dibattito si è perduta, i parroci si scelgono le loro équipes e ci sono pochi scambi di vedute sui contenuti nelle parrocchie.
Anne-Marie Pelletier rincara la dose: ci vogliono dei partner per dialogare, ma c’è una separazione tra preti e laici, e tra uomini e donne nella Chiesa; abbiamo sviluppato una teoria che lega il lato mariano del cuore alle donne, e il lato petrino della testa (e del potere presbiterale) agli uomini, contrariamente alla Chiesa inclusiva predicata da Paolo. Si sarebbe invece potuto parlare dei ruoli complementari di Pietro e Maria Maddalena alla tomba la mattina di Pasqua.
Si sono rinchiuse le donne in una logica del sublime che al contempo le sminuisce, perché le pone in alto e lontano per meglio togliere loro incarichi di responsabilità; e sviluppando fantasticherie su Maria e le specificità femminili. Invece, siamo prima di tutto, tutti insieme, uomini e donne, comunità di appartenenza a Cristo, chiamati alla stessa missione al suo seguito. E solo dopo si può parlare di differenze da onorare – a condizione di non cominciare col porre la differenziazione come condizione preliminare.
Véronique Margron torna sul rapporto con la verità, che non è mai posseduta da qualcuno: “la verità è un viaggio, un esodo, un esilio”; sfugge, che si tratti della verità dell’umano, della fede o della Chiesa. I seminaristi sviluppano a loro insaputa un corporativismo, un ecosistema che li mette a parte – mentre si potrebbe pensare ad una formazione “normale” in una vita “normale”. Il linguaggio dei vescovi, che si sentono immediatamente differenti da noi, ci lascia all’esterno, senza nemmeno che ce ne rendiamo conto. Del resto, conversare presuppone di accettare il conflitto, altrimenti è l’uniformità a regnare: solo il conflitto con le parole, non violento, può portare al consenso – inimmaginabile senza conflitto, per permettere la vita comune, il bene comune.
Bisognerebbe includere tutte le persone di buona volontà nelle conversazioni nella Chiesa.
Anne Soupa riprende la questione dell’obbedienza, concepita in maniera infantile, nei confronti della “Chiesa madre”. Ricorda che Giovanni Paolo II concepiva i laici come dei “non chierici”. Al contrario, Francesco parla delle donne come responsabili e capaci, ha dato loro il diritto di voto al sinodo; ma l’uguaglianza di responsabilità per le donne resta ancora da conquistare nella Chiesa, prima di porre differenze tra uomini e donne a priori come Francesco sembra fare. E Laure Blanchon nota quanto le donne possano “sentirsi inconsistenti nella Chiesa” (sic) e ben lungi dall’essere uguali in dignità.
Anne Soupa chiede il riconoscimento della pari dignità di tutti i battezzati, piuttosto che l’accesso al presbiterato per le donne. Auspica anche l’inculturazione della Chiesa, il riconoscimento degli apporti della psicologia, per esempio.
Laure Blanchon propone di ispirarsi ai luoghi che accolgono e ascoltano i poveri, che spezzano le chiusure delle nostre comunità e ci propongono un modello per ritrovare la fiducia dopo aver attraversato il dolore. Perché quando si resta tra noi, che si sia preti o buoni parrocchiani, non succede niente. Il contatto con i più poveri fa scoppiare la bolla, bisogna inventare un dialogo che permetta la trasformazione. La cappa di piombo sulla nostra Chiesa ci impedisce di avanzare, invece, vedere persone abituate ad essere disprezzate che riescono a stare in piedi, da testimoni del Risorto, ci offre un’immagine di passaggio pasquale, a tutti, e alle vittime sessuali in particolare.
Quale immagine, quale volto di Dio ci siamo fatti? Rischiamo di sbagliare Dio se ignoriamo la miseria. Lui apre cammini là dove nulla sembrava possibile. Dobbiamo far cadere l’idolo di un Dio onnipotente.
Isabelle de La Garanderie fa riferimento al sensus fidei, alla creazione di luoghi di incontro e di parola, aperti anche ai feriti della vita. Perché ognuno ha qualche cosa da dire nella Chiesa, come ci raccontano diversi incontri di Gesù nel Vangelo. Quei luoghi ci permetterebbero di dialogare, di andare a cercare coloro che sono differenti, di ascoltarci gli uni gli altri.
Anne-Marie Pelletier pensa ai luoghi in cui le donne esercitano funzioni petrine, come le cappellanie delle prigioni o degli ospedali, o le comunità dell’Amazzonia. Perché già oggi si fanno
cose importanti nella Chiesa: in vari luoghi delle donne predicano, fanno l’omelia o tengono ritiri. Giovanni XXIII diceva: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciano a comprenderlo meglio”. Alla fine del capitolo 6 nel libro di Isaia, Dio pota i rami secchi, bisogna aver superato la morte per poter andare fino alla vita del futuro. Il futuro della Chiesa appartiene a Dio, tocca a noi l’audacia della lucidità e della speranza.
Véronique Margron constata che noi possiamo finalmente guardare il peggio di noi stessi, il che potrà aprirci il cammino della speranza, perché solo l’affrontare il reale ci proteggerà dall’illusione; ma la speranza è dalla parte del “piccolo”: lasciare spazio vuoto per la virtù. E Anne Soupa conclude sul possibile risollevarsi nella Chiesa: i poveri sono coloro che sono attenti a ciò che va male, ascoltarli è fondamentale se non vogliamo più vivere quello che viviamo ora. Maria Maddalena ha annunciato la Resurrezione, che è il centro della nostra fede e non ha nulla a che fare con questa Chiesa sacrificale che ci viene presentata. Dunque, dobbiamo annunciare che siamo dei resuscitati.
Possiamo trovare la nostra dose di speranza anche nel libro di queste sette donne e teologhe, che credono nel futuro del messaggio del Vangelo.
Testo originale: Des théologiennes qui nous ouvrent un avenir