Sapete cos’è la felicità?
Riflessioni di Paul Ricoeur tratte da Avvenire del 21 giugno 2005
La formula della felicità è questa: “ beati coloro che…”. Saluto la felicità giustamente come una “ riconoscenza”, nei tre sensi del termine: la riconosco come mia, la approvo negli altri e sono grato per ciò che ne ho conosciuto in queste piccole felicità, tra le quali ci sono quelle della memoria, che mi guariscono dalle grandi infelicità dell’ oblio. In questo caso procedo al contempo come filosofo, nutrito dai Greci, e come lettore della Bibbia e del Vangelo, dove possiamo seguire il percorso della parola felicità, ma in due registri.
Questo perché il meglio della filosofia greca rappresenta una riflessione sulla felicità, cioè la parola greca eudemonia (si parla dell’ eudemonismo filosofico in Platone e in Aristotele ). Ma io mi ritrovo molto d’accordo con la Bibbia: penso all’ inizio del Salmo 4: “Chi ci farà vedere il bene?“
E’ una domanda un po’ retorica, ma che ha la sua risposta nelle Beatitudini. Esse sono l’ orizzonte della felicità di una vita sotto il segno della benevolenza, perché la felicità non è semplicemente ciò che non ho e che io spero di avere, ma anche ciò che ho gustato.
Tre immagini di felicità
Ho riflettuto di recente sulle immagini di felicità della mia vita. A proposito della creazione, di fronte a un bel paesaggio, la felicità è l’ ammirazione. Nei confronti degli altri, nella riconoscenza verso di loro, sul modello nuziale del Cantico dei Cantici, la felicità è il giubilo. E – terza figura – rivolta verso il futuro, la felicità è l’ aspettativa: io mi aspetto ancora qualcosa dalla vita. Spero di avere il coraggio davanti al dolore che non conosco, ma mi attendo ancora felicità.
Uso la parola “aspettativa”: potrei usarne un’ altra che mi viene dalla Prima lettera ai Corinzi, nel capitolo precedente al famoso capitolo 13 sulla carità che “comprende tutto, scusa tutto” etc. Il capitolo precedente inizia così: “ Aspirate ai carismi più grandi”; “Aspirate, aspirate “ La felicità dell’aspettativa completa la felicità del giubilo e dell’ammirazione.
Un servizio gioioso
Quello che anzitutto mi colpisce qui, in tutti i piccoli servizi quotidiani della liturgia, negli incontri di tutti i tipi, nei pasti e nelle conversazioni, è l’ assenza completa di relazioni di dominio. Ho qualche volta l’ impressione che, in questa sorte di accuratezza paziente e silenziosa di tutti gli atti dei membri della comunità, ognuno obbedisce senza che nessuno comandi.
Da questo risulta un’ impressione di servizio gioioso, potrei dire di obbedienza amante, sì, un’obbedienza che ama, che è dunque tutto il contrario della sottomissione e del vagabondare. Questa strada, generalmente stretta, tra quello che ho appena chiamato sottomissione e vagabondare, qui è largamente indicata dalla vita comunitaria. E’ di questo che noi, i partecipanti – non quelli che assistono, ma che partecipano, come io credo di essere stato e di essere qui – beneficiamo.
Godiamo di questa obbedienza amante che abbiamo proprio verso l’esempio che ci è dato. La comunità non impone una sorta di modello intimidatorio, ma, direi, una specie di esortazione amichevole.
Mi piace questa parola “esortazione” poiché non siamo nell’ ordine del comando e ancora meno dell’ obbligo, ma neppure siamo nell’ ordine della diffidenza e dell’ esitazione, che oggi è l’ andamento della vita nelle professioni, nella vita urbana, nel lavoro e nel divertimento.
Questa tranquillità condivisa rappresenta per me la felicità della vita presso la comunità di Taizè.