Sono un omosessuale algerino fuggito a Parigi
Testimonianza di Aniss A.* pubblicata su Le Monde il 22 Giugno 1996, liberamente tradotta da Anna C.
Non sono gli islamisti che mi hanno fatto scappare dall’Algeria, bensì tutta la società. Per noi omosessuali, costretti da sempre alla clandestinità, la peggiore delle morti, la peggiore delle guerre, è il disprezzo nei nostri confronti.
Ho trascorso più di trentacinque anni ad Algeri, a tacere, a vergognarmi di me stesso. Non voglio più subire quel tipo di morte. Non ne posso più. Anche se domani dovesse ritornare la pace, non farò ritorno in Algeria.
In quel periodo, l’Algeria era in pieno fermento. Ovunque si creavano partiti, venivano promossi giornali e associazioni. Tutti si mobilitavano per difendere i propri diritti. Ci eravamo detti: perché non noi? Abbiamo tenuto delle riunioni e abbiamo cominciato a redigere testi. La nostra principale rivendicazione era l’abolizione delle leggi contro gli omosessuali, la sospensione della schedatura da parte della polizia e della repressione.
Volevamo avere il diritto di vivere alla luce del sole. Ma non sapevamo come presentarci. Eravamo divisi tra il desiderio e l’angoscia di infrangere il tabù.
In Algeria, l’omosessualità è sempre stata una parola vietata. Avevamo bisogno di un’organizzazione che ci appoggiasse, che ci proteggesse. Non avevamo il coraggio di togliere il velo in maniera troppo brutale.
Un po’ come il movimento femminista, a cui ci siamo sempre sentiti vicini, il quale non ha mai esposto la questione della sessualità nella pubblica piazza.
In un primo momento, abbiamo cercato di far passare il messaggio attraverso i partiti progressisti. Alcuni di noi hanno aderito al Raduno per la Cultura e la Democrazia (RCD), altri al Fronte delle Forze Socialiste (FFS). Ci siamo rapidamente resi conto che sbagliavamo direzione. Non era il modo giusto per affrontare i nostri problemi.
Abbiamo abbandonato questi partiti e abbiamo cercato di ottenre l’appoggio di personaggi del mondo universitario, culturale e artistico. Qualcuno ha approvato la nostra iniziativa. Ma nessuno era pronto ad impegnarsi pubblicamente per noi.
Gli anni ’90 e ’91 sono stati i più belli della mia vita. Il 1991, in particolare: si rimorchiava apertamente, sotto gli occhi di tutti. Era davvero l’anno della scopata! Era anche quello dell’AIDS. La paura del virus ha contribuito molto alla volontà di creare un’associazione. Non era mai stata fatta una campagna di prevenzione in Algeria, come se l’AIDS fosse sinonimo di perversione.
Molto presto, con l’impegno da parte degli islamisti, siamo sprofondati di nuovo nell’angoscia. Essi indottrinavano i giovani, li facevano sentire colpevoli, dicendo loro che vivevano nel peccato.
Ho avuto una relazione durata sei mesi con un tipo che ha finito col diventare islamista. Ha cominciato ad evitarmi.
Quando mi incrociava per la strada, girava la testa. E poi avevamo paura delle milizie dei “barbuti”. Vestivano all’afgana e interpretavano il ruolo della costume che avevano conosciuto all’epoca dell’FLN. Alcuni di noi sono stati picchiati.
Da quel momento, ognuno è ritornato poco a poco nella clandestinità. Non ci riunivamo più. Avevamo disertato il “boulevard della fila indiana”. Un giorno, un amico è stato ritrovato decapitato nella sua abitazione. Parecchi altri omosessuali sono stati uccisi.
Questi omicidi non hanno avuto diritto neanche ad una riga sui giornali. Di recente ad Algeri, ho visto folle di giovani in jeans attillati, molto alla moda, con orecchini e capelli impomatati che passeggiavano nei pressi della facoltà centrale. Ho avuto paura di andare verso di loro. Ho cambiato marciapiede. Per me, il viaggio è finito.
La violenza esercitata contro l’omosessualità – e più in generale contro la sessualità- non è l’appannaggio dei soli islamisti. È la società stessa che ne trasuda.
Un esempio tra mille: nel 1994 non sono i “barbuti” bensì i militari a fare irruzione in uno dei bagni più conosciuti ad Algeri, riservato agli uomini. Tutti i clienti sono stati pestati. L’edificio è stato chiuso. Poi ha riaperto. Sotto la minaccia di una nuova irruzione, di una punizione sempre possibile. Questo bagno non ha nulla a che vedere con i backstage delle disco per omosessuali in Francia. Somiglia piuttosto ad un bordello al maschile: gli etero ci vanno per scopare con gli omosessuali.
E vengono da tutti i quartieri della capitale, da tutte le città della regione. Il proprietario è complice. È lui che legge i contatori: la tariffa all’entrata è più alta che altrove. L’omosessuale interpreta gratuitamente il ruolo di “prostituta” dei poveri.
Contrariamente a quello che succede in Francia, dove gli incontri amorosi hanno luogo spesso nel cuore del ghetto, in Algeria gli omosessuali hanno molto raramente relazioni omosessuali tra loro. Da noi, l’amore e il sesso formano due pianeti distinti. Spesso ci sono dei legami molto forti tra madre e figlio, tra padre e figlia o tra fratello e sorella. Ma il sesso è tenuto ad anni luce di distanza.
Gli uomini, in generale, fanno sesso come animali, senza parole, senza carezze e senza preservativi. Lo si fa nei parcheggi, nei boschi, sulle spiagge. A volte, sotto un portone.
È nei quartieri poveri che si rimorchia alla grande. Molti uomini vengono con noi perché non possono andare con le donne. I giovani fidanzati, ad esempio.
La società e la religione esigono che la ragazza preservi la propria verginità fino al matrimonio. Allora, nell’attesa, ripiegano sugli omosessuali. Stesso caso per i tipi senza soldi. Non è il desiderio che li spinge verso di noi, ma la miseria. Sanno che gli regaliamo piccole cose, una maglietta, un pasto al ristorante, un po’ di denaro. Quando vado a Bab El Oued, ho i ragazzi più belli semplicemente perché vado in giro in macchina e ho un pacchetto di sigarette.
Nel passato, molti turisti stranieri venivano a rimorchiare sulle spiagge. Arrivavano con valige piene di vestiti, regali. Era la loro moneta di scambio. Non hanno fatto, dopo tutto, che seguire il cammino tracciato da altri stranieri, predecessori illustri come André Gide o Oscar Wilde. Il pittore orientalista Étienne Nasrédine Dinet (1861-1929) è stato sepolto in mezzo al suo amico Slimane e alla sposa di quest’ultimo.
Al museo di Bou Saada, nella camera di Dinet ricostruita, è stata messa una foto di Slimane sul comodino. L’omosessualità viene suggerita, tollerata, ma non viene mai detta. Viene percepita, al massimo, come una malattia vergognosa.
Il mistero che continua ad aleggiare sul’omicidio nel 1973 del poeta Jean Sénac, omosessuale e comunista, è l’esempio massimo di questa ambiguità.
Il giorno in cui ho detto ai miei fratelli che ero omosessuale, qualcosa si è rotto tra di noi. La sola persona alla quale non ho detto nulla è mia madre: c’è una tale complicità con lei! Sono sua figlia, infatti.
La vesto, la pettino. Parliamo di tutto, di vestiti, di cucina, dei problemi quotidiani. Da quando sono partito, lei vive nello sconforto, nella solitudine più totale. In Algeria, non si può amare un uomo. È una volta arrivato a Parigi che ho iniziato a cercare.
Ma come si può riuscire ad amare, quando non si è stati amati, quando ci si sente castrati affettivamente e sessualmente? Dopo due anni trascorsi in Francia, sono felice e deluso al tempo stesso.
Il ghetto omosessuale è un luogo chiuso e razzista a volte, come l’immagine della Francia. All’inizio mi spacciavo per greco, italiano o libanese. Alla parola algerino, alcuni volti si chiudono. È una diffidenza che capisco. Molti giovani algerini utilizzano il circuito omosessuale per sopravvivere. Si fanno mantenere.
Questa diffidenza mi ha turbato a lungo. Adesso, mi ci sono abituato. Non gioco più a fare l’uomo. Non voglio più passare le serate con gli etero, che parlano di ragazze, in continuazione, di macchine, di calcio. Queste cose non mi interessano. Il 22 giugno andrò al Gay Pride. Come l’anno scorso e come forse l’anno prossimo.
* Aniss A. è nato nel 1969 in Algeria. “Par-dessous la meïda” (Éditions Bonobo, 2004, 324 pagine) è il suo primo romanzo, per ora pubblicato solo in lingua francese, in cui racconta le difficoltà della sua vita di omosessuale in Algeria, ma anche le gioie che rendono questo martoriato paese un grande paese. Un bel testo, pieno di umorismo, riflessioni sulla famiglia, la tradizione e il potere.
Lo pseudonimo dell’autore vuol essere una presa in giro della società tunisina che lo addita come “Anissa”, che in arabo significa “la signorina”. Recentemente l’autore è ritornato ad Algeri, dove lavora e ha una storia d’amore con altro algerino.
Testo originale
Un homosexuel algerien a Paris (file doc)