Strada facendo. La scoperta della libertà di essere arabo e gay
Testimonianza di Fadi raccolta* da Alessandra Maria Starace, seconda parte
Sono a Roma. Tanto per dirne una mi accorgo d’essere l’unico tizio arabofono della comunità e le caricature degli altri studenti sui suoni gutturali della mia lingua d’origine – anche se non fatti con cattiveria – mi sembrano fuori luogo ed eccessivi; di conseguenza il buonumore, anziché farmelo venire, me lo fanno passare.
E, sempre parlando di integrazione linguistica, non posso dirmi proprio in una botte di ferro, dal momento che le mie tutor di riferimento per l’apprendimento dell’italiano nella comunità sono una consacrata di lingua spagnola e una suora messicana, entrambe da pochi mesi in Italia. Per cui, diremo che – per un annetto buono – il mio proferir parola risulta poco comprensibile, ma sicuramente molto pittoresco.
Nella comunità il clima è solenne: fa un freddo cane, lettere e telefonate sono controllate (inoltre, essendo arabofono, mi sento addosso il peso culturale dell’incomprensione tra i popoli, pur non avendo fatto nulla di male). Dopo qualche mese mi ammalo e finisco in ospedale dove conosco un ragazzino e la sua famiglia che mi sono di grande conforto. Esco, torno nella comunità e ricevo la proposta di diventare collaboratore del fondatore, ma decido di andar via anche perché comincio a riflettere sul fatto che forse la consacrazione non fa per me.
A Roma trovo un paio di lavori più o meno stabili, alloggio a pensione da una signora molto accogliente.
Un giorno, nel negozio di oggetti sacri in cui lavoro, entrano due giovani sacerdoti con cui inizio a parlare del più e del meno. Da lì a scambiarci il numero di telefono è un attimo.
E, con mia gran sorpresa, scopro che il dono del celibato e la professione della castità non sempre rientrano nelle corde di chi riceve la chiamata. Lo scopro in prima persona e devo dire che la cosa non produce in me un grande effetto, semplicemente è la controprova del fatto che neanche io sono nato per fare il ministro di Cristo.
Vado via da Roma, mi trasferisco in Umbria e trovo lavoro in un monastero, come responsabile della vendita di prodotti monastici alimentari e chincaglierie varie.
Sono gli anni in cui internet comincia a prendere piede e io, in quell’angolo di mondo, comincio a sentirmi davvero solo. Sono incastrato tra la bellezza delle piante che respirano in silenzio e l’incertezza per il mio futuro: leggo e studio molto, ma non sono ancora diplomato, il mio permesso di soggiorno in Italia è un filo quasi invisibile procrastinato nel tempo; a venticinque anni non ho punti di riferimento stabili.
Sarà perché mi sento spaesato, perché spero di dare una svolta alla mia vita, ma comincio a usare il computer dell’ufficio per frequentare i siti d’incontri per ragazzi omosessuali. Ne conosco qualcuno che entra nella mia vita con la stessa velocità con cui ne esce. Con qualcun altro approfondiamo la conoscenza e diventiamo amici.
Siccome quando meno vuoi dare nell’occhio, tanto più riesci a darlo, penso bene di spostare la collocazione del computer che uso per le mie marachelle erotiche in senso contrario alla porta dell’ufficio in modo che, se qualcuno entra, non può vedere la mia impresa del momento; la scusa sbandierata col sorriso sulle labbra è che non voglio essere maleducato e dar le spalle a chi entra.
Preso da ben altro, ignoro l’esistenza della cronologia di navigazione (e non mi preoccupo di verificare se le mie ricerche possano o meno essere rintracciate); per cui, dopo un po’ di tempo di quest’amena attività, mi ritrovo sventolata sotto il naso la stampa di tutte le volte che mi sono connesso al sito della vergogna e, dulcis in fundo,il mio profilo utente. Morale della storia: mi danno una settimana di tempo per andarmene.
Faccio per l’ennesima volta i bagagli, contatto un ragazzo con cui mi ero incontrato in precedenza e lui mi ospita a casa sua, in Emilia Romagna. Ne nasce una storia d’amore che dura otto anni, durante la quale mi iscrivo alla Facoltà di Scienze Religiose.
Comincia una fase critica che segna il definitivo crollo delle mie illusioni sulla perfezione della Chiesa così come l’avevo idealizzata, sotto la lente dei miei diciannove anni; il rettore è omofobo e i commenti di disapprovazione sull’omosessualità si sprecano. Alcuni professori sono molto bravi, ma più parlano di dottrina, più io mi pongo domande e più sembra che le mie idee ingaggino una guerra le une contro le altre.
Non prendo la Laurea in Scienze Religiose; non m’interessa prenderla, a dire il vero, sento che la mia strada è un’altra. Lascio quella Facoltà senza rimpianti.
Mi concentro su quello che m’interessa davvero: mi metto d’impegno per capire cosa sono bravo a fare e qual è la mia vera vocazione nella vita. Alla fine mi iscrivo alla Facoltà d’Infermieristica e mi laureo.
Col mio ragazzo ci lasciamo ma restiamo amici, e tuttora ci frequentiamo.
Quando, ancora una volta, sta per scadermi il permesso di soggiorno, conosco – tramite amicizie comuni – una persona molto generosa che mi adotta e, dopo dieci anni dalla sentenza (e ventidue da quando ho messo per la prima volta piede nella Penisola) divento finalmente cittadino italiano.
Non so quanto sia rimasto dell’Islam e del cristianesimo in me. Per un periodo frequento i raeliani, e con loro lavoro sul superamento del senso di colpa, quello che mi si appiccica addosso ogni volta che penso di aver sbagliato verso la mia famiglia, con gli estranei o anche verso me stesso.
Oggi posso dire di sentirmi piuttosto comodo nella mia vita: ho un lavoro, un compagno e alcuni amici preziosi di cui fidarmi. Ho la forza di raccontare e raccontarmi senza escludere i miei errori e di scherzare sulla mia reiterata ingenuità. Non sento la rabbia di quelle persone che, dopo la Primavera Araba, professano un ateismo altrettanto duro e intransigente del dogmatismo prescritto dal Corano.
Guardo l’Islam dal di fuori, forse dalla posizione privilegiata di chi l’ha vissuto, analizzato e poi lasciato lì, come una pietra miliare messa al lato di una strada su cui si deve necessariamente camminare, ma che poi si supera. Tuttavia è anche vero che non puoi dimenticare che su quella pietra ci sei stato seduto per parecchio tempo.
Il mio percorso continua e non so dove mi porterà.
L’incontro con Cristo ha avuto come conseguenza la possibilità di vivere di esperienze personali e scelte in modo consapevole; e questo ha significato molto, anche se poi sono passato oltre. Ma è anche vero che molti degli insegnamenti che il Vangelo mi ha consegnato li tengo stretti e non li lascio scappare; Cristo ci ricorda che Dio, come atto massimo d’amore, rende l’uomo libero di scegliere il bene e anche il male.
E per quel che mi riguarda, il libero arbitrio è stato forse il regalo più prezioso che abbia mai ricevuto da quando sono venuto al mondo.
*DUE VITE è un progetto di Alessandra Maria Starace e dei volontari del Progetto Gionata per raccontare le vite dei migranti LGBT+ spesso in fuga da Stati dove la guerra, l’intolleranza e l’omotransfobia uccide. Vorremmo raccogliere e raccontare le loro storie dimenticate per mostrare le difficoltà ma anche gli incontri che gli hanno cambiato la vita, perché ricordiamo che ognuno di noi può sempre fare la differenza nell’accogliere l’altro, perché “chi salva una vita salva un mondo”. Vuoi aiutarci, vuoi raccontarci la tua storia o di una persona a te vicina? Scrivici a gionatanews@gmail.com