Sull’omosessualità è tempo di umanizzare l’antropologia, per costruire identità cristiane reali
Intervento di Damiano Migliorini* tenuto alla presentazione del libro “Genitori fortunati” al Salone Internazionale del Libro di Torino (21 maggio 2022)
Gli spunti che provengono dalla lettura delle storie raccontate in questo libro (Genitori fortunati. Vivere da credenti il coming out dei figli, editrice Effatà, 2022, 144 pagine) sono molteplici, e stimolano inevitabilmente la riflessione teologica e antropologica, nonché la nostra impostazione pastorale.
Un tema che emerge, per esempio, nella prima testimonianza, è quello del “silenzio”. I genitori raccontano di essersi stati travolti da una realtà che non conoscevano, che era un tabù, di cui non si parlava. E sono stati soffocati dal silenzio delle persone vicine, con cui non era possibile parlare.
Da questo punto di vista, le comunità cristiane hanno primariamente il compito di rompere questo silenzio, creando spazi accoglienti dove le persone possano narrarsi senza timore. Se è vero che, inevitabilmente, la nostra individualità è costruita relazionalmente – perfino il coming out non è unilaterale, ma famigliare, quindi relazionale, ricorda Bialetti nel suo saggio – genitori e comunità cristiane dovrebbero innanzitutto chiedersi come sia possibile “contribuire” alla formazione dell’identità cristiana di una persona omosessuale.
Contribuire a questa identità significa permettere che essa si sviluppi in un ambiente accogliente e amorevole, perché solo in questo contesto una persona cresce e matura, e quindi è poi capace di amare a sua volta, portando a compimento il comandamento dell’amore.
Per avere identità cristiane mature, capaci di amare, bisogna prima aiutare la persona a sviluppare la propria identità, rendendola capace di amarsi attraverso tessuti relazionali che le permettano di fiorire. Questo implica, ad esempio, rompere quel silenzio, creando nelle comunità momenti di condivisione, di formazione.
A partire anche dagli stimoli di riflessione offerti da queste testimonianze, nel saggio ho cercato di mostrare quanto sia importante che i cristiani si pongano la domanda antropologica per eccellenza: “Chi è l’uomo?”. La risposta è tutt’altro che scontata, e nel mio piccolo ho cercato di accennare a qualche possibile via da intraprendere (sempre “sulle spalle dei giganti”), come ad esempio l’antropologia relazionale.
L’approccio relazionale lo stavo sviluppando da tempo, perché ha in primis delle radici scientifiche e anche filosofico-ontologiche. Come ogni entità di questo nostro universo, il nostro Io si costruisce, in buona misura, attraverso le relazioni. La lettura delle storie del libro “conferma” che tale approccio (che è ancora in una fase aurorale) va nella direzione giusta.
Nelle testimonianze raccolte si racconta spesso, ad esempio, che la scoperta di avere un figlio omosessuale ha portato a un cambiamento profondo nell’essere genitori e nell’essere cristiani. Il nostro Sé è esposto alle relazioni (per usare una felice espressione di Lucia Vantini), e in esse si determina.
Chi s’avvicina senza preconcetti al mistero di tutte le esistenze, cogliendone l’infinita complessità e bellezza, non può che rendersi conto di quanto l’identità personale sia relazionale, e che solo un approccio antropologico di questo tipo possa davvero renderne conto, sebbene solo fino ad un certo punto: il problema di ogni discorso sull’uomo è l’uomo stesso (passatemi il gioco di parole), il quale, nella sua singolarità – un’essenza individuata attraverso un unico e irripetibile processo relazionale – sfugge sempre ad ogni categorizzazione.
Il problema di fondo dell’antropologia è quindi quello di sviluppare un discorso che possa valere universalmente, senza con questo soffocare le individualità. L’antropologia relazionale mi sembra un buon compromesso, che va in questa direzione.
Questo approccio “relazionale” può almeno in parte aiutare a risolvere, inoltre, una serie di vicoli ciechi dell’antropologia teologica e della teologia morale. Esso è “relazionale” in almeno due sensi:
(1) Riguardo al corpo: si tratta di riconoscere che il corpo ha sì delle dimensioni fisico-biologiche, ma anche delle dinamiche psichiche, e quindi il Sé della persona è “per natura” costruito da un’interazione costante tra corpo e psiche; vedere il corpo in questa dimensione ci permette di rendere conto delle pluriformi identità dell’uomo, rendendoci conto, ad esempio, che ne esistono molte di “sane” che non avevamo “previsto”. All’identità, poi, può corrispondere una forma propria di “castità”, quindi una riflessione etica che possa proporre un’ideale possibile alle persone reali.
(2) Riguardo all’antropologia come disciplina: si tratta di riconoscere che la nostra conoscenza della natura dell’uomo è progressiva, non necessariamente “liquida” o addirittura “relativista”, ma direi “fallibile”. Ne esce un’antropologia disposta a riconoscersi come parte di un circolo ermeneutico in costante riassestamento.
Nel circolo ermeneutico, in cui i dati si mescolano – e per dati intendo quelli scientifici, biblici, antropologico-culturali, filosofici etc. –, entrano anche le esperienze dei singoli, delle singole coscienze. Da questo punto di vista, forse la storia dell’antropologia cristiana è stata segnata da una sorta di sordità nei confronti delle coscienze. Certo, le coscienze non hanno valore assoluto (cadremmo nel soggettivismo!), e un discernimento è sempre necessario, ma non possono non essere tenute in considerazione.
Nel sentimento d’amore che porta due persone dello stesso sesso a vivere una relazione di fedeltà e di cura c’è una verità sentita che, forse, la ragione teoretica non riesce del tutto a concettualizzare, ma che è lì, come evidenza per i soggetti in gioco. Nell’amore vissuto dalle persone omosessuali si potrebbe rivelare una verità antropologica alla quale la ragione, osservando dall’esterno (magari attraverso le griglie rigide e astratte della legge naturale), senza provare emozioni, non avrebbe accesso.
Mi pare che questo emerga anche da alcune delle testimonianze del libro. Anche l’amore dei genitori verso i figli, e verso gli amori dei figli, è una realtà che dischiude una verità umana fondamentale.
Dunque, umanizzare l’antropologia (titolo del mio saggio) significa almeno tre cose: (1) prendere in considerazione l’essere umano nella sua irriducibile complessità; (2) riconoscere la relazionalità e vulnerabilità della natura umana; (3) essere consapevoli della complessità interdisciplinare e intersoggettiva dell’operazione di conoscenza e definizione di ciò che è umano.
Da un’antropologia meno “fissista”, poi, discende un’etica capace di ascoltare davvero la realtà. Del resto, quel che ho cercato di spiegare nel testo è che è assurdo pensare che etica e antropologia siano discipline separate. Sono una lo specchio dell’altra, e si influenzano costantemente.
In chiusura, un aneddoto. Questo piccolo saggio nasce anche dalla “vita reale” delle comunità. In esso, infatti, sono confluite delle riflessioni che ho avuto modo di sviluppare in occasione di alcuni incontri formativi che mi sono stati chiesti. Certi tragitti, certe intuizioni, quindi, sono stati la modesta “offerta” a una “domanda” che mi è stata rivolta, senza la quale, forse, non avrei mai preso in mano certe questioni e certi autori. E di cui sono quindi grato. Quando Effatà, tramite i curatori, mi ha chiesto di scrivere questo testo, tutti i tragitti hanno trovato una loro provvidenziale convergenza.
* Damiano Migliorini si è dottorato in Scienze Umane all’Università di Verona dopo la specializzazione in Scienze Filosofiche all’Università di Padova e in Scienze Religiose all’ISSR di Padova. Attualmente insegna filosofia al Liceo. È stato Casco Bianco in Bolivia nel 2014. Da anni è impegnato nella promozione dell’inclusione delle persone LGBT+ all’interno delle comunità cristiane, anche attraverso varie pubblicazioni, tra cui L’amore omosessuale (con B. Brogliato, 2014) e Gender Filosofie Teologie (2017). Ha pubblicato numerosi articoli scientifici, divulgativi e capitoli in volumi. Ha curato, con D. Bertini, il volume Relations (2018) e di recente Ontologie relazionali e Metafisica trinitaria (2022). In Genitori fortunati. Vivere da credenti il coming out dei figli (2022) ha curato il capitolo “Umanizzare l’antropologia per costruire identità cristiane”