Sull’omosessualità la chiesa cattolica non riflette per paura
Articolo di Pasquale Quaranta tratto da Tempi di Fraternità, n.1, gennaio 2005, pp. 24-25
[…] In Italia esistono persone omosessuali. Persone – aggiungiamo noi – che hanno un volto, un nome, una dignità. Persone che, al pari delle persone eterosessuali, hanno il desiderio di amare e di essere amate, di aprirsi al trascendente.
C’è da chiedersi quanto la testimonianza delle persone e dei gruppi “omosessuali credenti” in Italia sia correlata all’aggiornamento della pastorale con le persone omosessuali.
Intanto c’è un obiettivo comune su cui impegnarsi: l’abbattimento dei pregiudizi. Credere significa infatti “conoscere in base a una testimonianza”, aderire con fiducia al racconto di qualcuno che ci indica un evento misterioso quale la resurrezione di Gesù, riporre la propria speranza solo in Gesù Cristo.
Omosessualità e fede sono due concetti indipendenti. Per alcune persone rappresentano concetti astratti molto distanti fra loro, ma che attingono entrambi a quel senso di mistero che da sempre avvolge i motivi profondi delle nostre scelte.
I gruppi di gay e lesbiche credenti in Italia, da oltre venti anni, posano concretamente lo sguardo su questo mistero, sul silenzio che lo avvolge, su quella dimensione profonda della vita.
I gruppi di persone omosessuali credenti hanno scoperto e sperimentato i vantaggi che derivano da una “metodologia” semplice e al tempo stesso fondamentalmente evangelica: bisogna partire dal cuore della donna e dell’uomo, quello stesso cuore che spinge a gesti eroici di carità, a soffrire con chi soffre, a piangere con chi piange, a interrogarsi sul senso delle nostre vite e delle nostre scelte.
“Vorremmo dar voce al grande desiderio di trascendenza che quotidianamente vediamo intorno a noi: dire a tutti gli uomini che niente potrà mai spegnere la scintilla dello Spirito che ci portiamo dentro; desideriamo rinnovare la speranza in chi l’ha ormai perduta a causa del fariseismo che spesso rende opaca la testimonianza delle nostre chiese; vogliamo gridare con voce profetica che nulla è perduto e che il desiderio di assoluto che grida dentro ciascuno di noi è più forte di qualunque condanna e di qualunque legge umana” (dal sito web del Coordinamento omosessuali cristiani in Italia).
Nella Chiesa cattolica e in quelle riformate (in particolare nella Chiesa valdese), ci sono interlocutori che sono vicini alle persone omosessuali e che si ispirano ad una fede veramente adulta e a una radicalità evangelica autentica.
Alla luce di questa riflessione, l’associazionismo e il movimento dei gay e delle lesbiche credenti si è accorto di avere una responsabilità specifica: “rispetto a un Magistero che non è capace di comprenderci (perché occorre un certo tipo di familiarità con il vissuto di una persona omosessuale per comprenderlo davvero), siamo chiamati a definire e a testimoniare un’etica fondata direttamente sulla voce dello Spirito Santo che parla in ciascuno di noi.
Si tratta di una responsabilità grande, perché mai come oggi la Chiesa cattolica corre il rischio di trasformare la verità sinfonica che è chiamata a proclamare in un unico suono monocorde” (Gianni Geraci, portavoce del Coordinamento omosessuali cristiani in Italia).
I gruppi da anni esortano la Chiesa e l’opinione pubblica “ad una maggiore preparazione spirituale e psicologica, dei sacerdoti e di tutti gli operatori pastorali a saper cogliere il dramma che spesso sta dietro il volto triste e smarrito di persone che ci stanno accanto e spronare le famiglie a fare altrettanto”: le parole del vescovo di Trapani mi sembrano una sorta di eco, un segnale di ascolto, l’esito positivo di quella missione svolta dalle persone omosessuali credenti e dal movimento gay italiano.
Ben venga il dialogo, la conoscenza di queste realtà, perché troppe persone ancora soffrono, in Sicilia e in tutta l’Italia, a causa di pregiudizi lesivi della dignità delle persone e di infondati tabù, ai quali mons. Micciché accenna e che invita a superare.
Forse si dovrebbe ripartire da una “maggiore preparazione spirituale e psicologica”, come scrive Micciché, ma accogliendoci nelle differenze, senza anatemi e drammi, nell’amore che Gesù ci ha testimoniato, quell’amore che ci rende fratelli e sorelle in Cristo.
Molte persone credenti oggi sognano una Chiesa che accetti la propria parzialità, la sua propria debolezza del suo essere crocifissa con Cristo. Sognano una Chiesa che in vista della risurrezione finale valorizzi le ricchezze proprie di ogni persona, comprese quelle del sesso e dell’orientamento sessuale.
Forse è ancora prematuro prevedere un’apertura evangelicamente profetica della Gerarchia cattolica verso le persone omosessuali. Però questi piccoli segnali, dei quali quello di mons. Micciché è un ulteriore esempio, attestano che qualcosa dal basso raggiunge anche l’alto.
E questo mi pare possibile perché, a mio avviso, c’è un fatto innegabile: quando gay e lesbiche imparano a vivere, a raccontare il loro amore condiviso nel rapporto di coppia umanizzante, aiutano tutta la Chiesa, Gerarchia compresa, a conoscere e valutare meglio l’ampiezza dell’amore.