Il Talento. Le parole della Bibbia
Articolo di Annamaria Fabri pubblicato su Castello7, lettera settimanale ai parrocchiani, anno 26, n.5 del 19 novembre 2017
Il vocabolo greco tálanton significa innanzitutto bilancia/pesa; è significativo che in greco ci sia anche la parola tálan = colui che sopporta, che soffre, che ci rimanda alla pesantezza delle situazioni della vita.
Nel vocabolo è sottinteso il movimento delle bilance che si piegano sotto qualcosa di pesante. Per questo il vocabolo è passato a significare anche il pesato cioè il peso.
Dal peso al valore di ciò che si è pesato il passo è breve. Il talento passò così ad indicare il carico che mediamente un uomo può portare e che potrebbe corrispondere oggi a circa mezzo quintale espresso in metallo prezioso (oro o argento).
Come moneta il talento sembra essere una misura di origine mesopotamica a sua volta divisa in 60 mine.
Nella versione greca della Bibbia, detta dei LXX, tálanton traduce la parola kikkâr, che in ebraico vuol dire disco di metallo (prezioso). Tenendo presente che Salomone aveva una rendita annuale di 666 talenti d’oro (1Re 10,14) e che il re Omri acquistò il monte Someron per due talenti d’argento (1 Re 16,23-24) possiamo dire, con grossa approssimazione, che un talento può essere paragonato a circa un mezzo milione di euro. Ed è con quest’ordine di grandezze che va intesa la parabola cosiddetta “dei talenti” che leggiamo nella liturgia di oggi (Mt. 25,18-28).
L’uso di talento per indicare le doti dell’animo è relativamente recente perché venne per la prima volta adoperato in questo senso dal medico naturalista rinascimentale Paracelso (1493-1541). Inizia da lui un modo di leggere questa parabola sempre più in chiave individualista e intimista facendo perdere al testo il riferimento principale al cammino della comunità cristiana alla quale è affidato l’annuncio della salvezza. Tutto il contesto del vangelo di Matteo ci porta infatti ad avere come obiettivo la venuta finale e definitiva del regno di Dio.