Un percorso a spirale: sulle orme della diversità
Intervento tenuto da Elizabeth E. Green*, pastora battista e teologa, tenuto nell’incontro “PIETRE D’ANGOLO” (Firenze, 5 aprile 2025). Trascrizione, rivista dalla relatrice, realizzata dai volontari de La tenda di Gionata
Il cuore della proposta di oggi è una riflessione condivisa: dove siamo arrivati, come chiese, nel rapporto con le persone LGBTQ+? A che punto siamo in questo cammino? Allo stesso tempo, però mi si è chiesto di raccontare qualcosa del mio percorso come pastora (sebbene ora in pensione).
Spesso si parla di “piena inclusione” delle persone LGBTQ+ ma trovo questa espressione poco adatta. È una formula che sembra rassicurante, ma che in realtà rischia di restare superficiale. Nel mondo protestante internazionale, si usano piuttosto due termini:
- welcoming (cioè accoglienza),
- affirming (cioè affermazione, riconoscimento pieno).
Non basta accogliere. È necessario affermare le persone LGBTQ+ nella loro identità, nella loro dignità, nel loro modo di vivere la fede. Questo è il tipo di cammino che cerco di portare avanti, ed è il senso del percorso che oggi vi racconto.
Il titolo del mio intervento, Sulle orme della diversità si rifà al mio libro Un percorso a spirale. Teologia femminista: l’ultimo decennio (editrice Claudiana, 2020). In particolare, mi riferisco al capitolo 5, dove si parla del passaggio “dalle chiese e omosessualità alla teologia queer”.
Per raccontare il mio cammino, mi è stato utile anche un altro testo: il libro di Matteo Mennini, Credenti LGBT+. Diritti, fede e Chiese cristiane nell’Italia contemporanea (Carocci editore, 2024). In questo volume si ripercorre la storia dei movimenti LGBTQ cristiani, dal 1970 al 2000. Trent’anni di trasformazioni, fatiche, conquiste.
Mennini divide quei trent’anni in tre grandi fasi:
- Gli anni ’60 – ‘70, segnati dalla necessità di “uscire dalle catacombe”: cioè rendersi visibili, rompere il silenzio e la vergogna.
- Gli anni ’80 – ’90, con il tentativo di “convertire le chiese”, in equilibrio tra vocazione e provocazione.
- Gli anni 2000 in poi, con una nuova consapevolezza: essere credenti LGBTQ+, vivere la propria fede e la propria identità in modo pieno.
Sono del parere che questo non sia un cammino lineare. Non è detto che si passi automaticamente da un punto all’altro. È piuttosto, “un percorso a spirale” , attraversiamo più volte le stesse fasi, torniamo indietro, facciamo un passo avanti e poi un altro di lato.
Tant’è che ci sono persone — e anche intere chiese — che oggi stanno ancora “uscendo dalle catacombe”. Altre che provano a “convertire” (verso l’inclusione) gli ambienti in cui vivono, con fatica e passione. E ci sono persone che riescono, oggi, a vivere pienamente la propria fede come persone LGBTQ+.
Io mi riconosco in questa idea di spirale. È un’immagine che mi accompagna da tempo e che riprenderò tra poco, anche a partire dal pensiero di Mary Daly.
Il mio percorso è molto simile a quello raccontato dalla pastora Letizia Tomassone. Anch’io arrivo dal movimento femminista, che ha segnato profondamente la mia vita.
Il contributo del femminismo
I miei studi teologici sono cominciati a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, proprio quando la riflessione femminista prendeva forza anche in Italia. È in quegli anni che ho scoperto e abbracciato la teologia femminista, che ha rivoluzionato il mio modo di intendere la fede, la Scrittura, la comunità. Il femminismo ci ha insegnato a riappropriarci del corpo, e con esso della nostra sessualità.
Parliamo di un periodo storico — la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 — che ha segnato una svolta per molte donne. Per alcune e alcuni di voi potrà sembrare lontano, per altri fa parte della memoria viva.
In quegli anni si è parlato molto di separatismo, cioè della scelta radicale, da parte di molte donne, di vivere e riflettere insieme ad altre donne, senza la mediazione maschile.
Dentro questo contesto nasce anche il concetto di “continuum lesbico”, cioè l’idea che una donna possa identificarsi con la cultura delle donne, piuttosto che con la cultura maschile dominante. Questo non significava necessariamente che tutte le donne fossero lesbiche. Piuttosto, si trattava di una forma di solidarietà, di alleanza, di identificazione affettiva e politica con altre donne.
Molte donne omoaffettive hanno poi criticato questa definizione, ma resta il fatto che il “continuum lesbico” ha permesso a tante di noi di scoprire un altro modo di essere, di sentirsi, di pensarsi.
Il punto centrale è che il femminismo — a partire da pensatrici come Simone de Beauvoir, con Il secondo sesso (1949, tradotto in Italia nel 1961) — ci ha insegnato che l’oppressione delle donne è il paradigma di ogni altra esclusione.
La logica della discriminazione femminile è quella che ritroviamo in tutte le altre forme di emarginazione: nei confronti delle persone LGBTQ+, delle persone razzializzate, delle persone con disabilità.
Per questo, la donna diventa il simbolo della diversità. Non nel senso di una vittimizzazione, ma come punto di partenza per decostruire ogni sistema di potere e oppressione.
C’è ormai un ampio consenso sul fatto che la discriminazione che colpisce oggi le persone omosessuali riproduca meccanismi già sperimentati da altri gruppi storicamente esclusi: pensiamo alle donne, agli stranieri, alle persone razzializzate, alle persone disabili, e così via.
Nel sistema patriarcale, l’identità femminile è stata costruita in opposizione e subordinazione a quella maschile. L’ordine socio simbolico in cui ci muoviamo assegna ruoli e identità che si definiscono sempre in relazione al maschile: il maschio è il riferimento, e il femminile viene pensato solo come il suo “altro”.
È proprio in questa logica che si inserisce anche la costruzione dell’omosessualità: per definire cosa sia l’eterosessualità, serve costruire la figura dell’omosessuale come suo “opposto”, come il diverso. Questo schema è familiare a molte e molti di voi, immagino.
La domanda che emerge, anche se può sembrare provocatoria, è questa: perché continuiamo a discriminare le persone omosessuali? Una delle risposte, seppur inquietante, è che questa discriminazione serve a confermare la nostra identità eterosessuale. È come se dicessimo: “Io sono eterosessuale perché non sono come l’altro che escludo”.
Quindi, io costruisco la mia identità eterosessuale escludendo, subordinando, discriminando le persone omosessuali. E lo stesso accade con il maschile: si costruisce anche escludendo e dominando il femminile.
È lungo queste traiettorie — che si intersecano e si rinforzano a vicenda — che prendono forma le varie forme di oppressione: sessismo, omofobia, transfobia, razzismo, abilismo…
Il femminismo ha cercato di mettere in luce proprio questo: l’intreccio delle differenze, il modo in cui esse sono state costruite, escluse, rese invisibili, discriminate. Quello che sto cercando di fare oggi è proprio tenere insieme queste differenze, per leggere il sistema che le produce e le tiene in piedi.
In questo, mi faccio aiutare da una filosofa italiana che stimo molto, Adriana Cavarero, che ha riflettuto in modo lucido sull’ordine simbolico patriarcale.
Secondo Cavarero, l’ordine simbolico patriarcale assume il sesso maschile come unico paradigma del genere umano, e lo fa non solo attraverso la cultura, ma anche nei luoghi di rappresentazione: lo spazio pubblico, la religione, la politica, la filosofia… Tutto si costruisce intorno a un solo sesso: quello maschile.
E al tempo stesso, questo stesso ordine decide anche come rappresentare il femminile: sempre in funzione del maschile, mai come soggetto autonomo.
La tradizione occidentale ha così costruito la differenza sessuale come una opposizione gerarchica: da una parte il maschile, dall’altra il femminile, ma non su un piano paritario. Il femminile è posto sotto, subordinato, escluso.
E attenzione: il maschile di cui si parla non è qualsiasi maschio. È un maschio preciso, con caratteristiche ben definite: bianco, eterosessuale, occidentale, borghese. È attorno a questa figura che si costruisce la “norma”.
Cavarero, e con lei molte altre pensatrici, ha messo in discussione questo schema. E nel tempo, altri autori e autrici hanno arricchito e articolato questa analisi.
C’è un dibattito molto vivace, anche in Italia, che tocca proprio questi nodi. Vi cito solo un esempio, utile per capire la posta in gioco.
Un confronto importante è quello tra Federico Zappino, filosofo queer, e alcune rappresentanti del cosiddetto pensiero della differenza sessuale, come Chiara Zamboni e Luisa Muraro, che fanno parte della comunità filosofica Diotima di Verona.
Zappino sostiene che alla base del patriarcato ci sia l’eterosessualità normativa, cioè quel modello che impone l’eterosessualità come unica possibilità legittima di relazioni affettive, sessuali e sociali. È da lì, secondo lui, che si costruiscono i generi e anche la loro “intelligibilità” sociale.
Zamboni, invece, afferma che la base simbolica di tutto sia la differenza sessuale. Se si perde quella differenza — secondo la sua visione — si rischia di cancellare anche il valore simbolico di tutte le altre differenze.
Quindi:
- per Zappino, il pilastro è l’eterosessualità normativa;
- per Zamboni, è la differenza sessuale in quanto tale.
Dal mio punto di vista, questo dibattito è un po’ sterile. Ma esiste, e continua ad attraversare ambienti diversi — anche dentro la Chiesa cattolica. C’è chi insiste sulla “naturalità” della differenza sessuale, e chi invece guarda all’eterosessualità come costruzione storica e normativa.
Il transfemminismo prova a superare queste polarizzazioni. Non si basa su identità fisse, non chiede di essere “donna” o “omosessuale” per prendere parola. Si fonda invece su alleanze tra soggettività differenti, tra tutte quelle persone i cui corpi sono esclusi e discriminati dal sistema patriarcale: le donne, le persone LGBTQ+, le persone razzializzate, le persone disabili, i migranti…
È un pensiero che si sviluppa a partire dalle differenze, ma per costruire alleanze, non gerarchie.
Lo possiamo ritrovare anche nel pensiero di Paul B. Preciado, nel movimento Non Una di Meno, e in molte esperienze collettive che nascono nei margini della società.
In questo quadro, Federico Zappino ci invita a smettere di discutere su quale sia “il vero” pilastro del patriarcato. Ci propone invece di guardare a questo sistema come un insieme intrecciato di pilastri — sociali, simbolici, ecclesiali, teologici — che si sostengono a vicenda.
Ed è proprio su questi incastri che dobbiamo intervenire, se vogliamo davvero cambiare le cose.
Vedete quanto sono intrecciati tra loro i pilastri del potere patriarcale? Uno è la differenza sessuale, l’idea che esistano solo due sessi — maschi e femmine — come dati biologici naturali. Un altro è la centralità della famiglia nucleare, un modello che ci portiamo dietro da secoli. Forse stamattina qualcuno ha già accennato a questo tema. E poi c’è il terzo pilastro, l’eterosessualità come norma.
Allora, invece di mettere la differenza sessuale e l’eterosessualità in opposizione, come se fossero due cose distinte, possiamo iniziare a vederle come elementi interconnessi dello stesso sistema di potere, quello patriarcale. Quindi, se il patriarcato si regge su questi tre pilastri — differenza sessuale, famiglia nucleare ed eterosessualità obbligatoria — possiamo chiederci: chi sono io, dentro questo sistema? Chi siamo?
Da una politiche dell’identità all’alleanza dei corpi
Nei movimenti di liberazione del secolo scorso — ma anche prima — ci si organizzava attorno a un’identità comune. Il movimento delle donne, ad esempio, nasceva dall’affermazione: “io sono donna”, e da lì prendeva forma una lotta condivisa.
Lo stesso valeva per il movimento operaio: “sono operaio, e lotto insieme ad altri operai”. Oppure: “sono gay, faccio parte di quel movimento perché sono gay”. L’idea era che l’identità personale e politica coincidessero, e che da quell’identità comune nascesse l’azione collettiva.
Ma questa è solo una parte della storia. A partire dagli anni ’90, alcune pensatrici e pensatori iniziano a mettere in discussione questa visione unitaria e fissa dell’identità.
Una filosofa italiana che ha lavorato molto su questo è Rosy Braidotti. Braidotti parla del “soggetto complesso”. Non siamo solo una cosa. Io, ad esempio, sono donna, sì, ma sono anche inglese, protestante, teologa, appassionata di nuoto… e in certi contesti, alcune di queste parti di me diventano più rilevanti di altre.
Ognuno di noi è così. La nostra identità è fatta di molteplici aspetti intrecciati, che si attivano in modo diverso a seconda dei contesti. Nessuno di noi è solo il proprio orientamento sessuale, o solo il proprio genere.
Un’altra collega dice che questa complessità non è solo una maschera esterna, ma qualcosa che ci abita, che è dentro di noi. È la nostra verità più profonda.
Per questo, quando qualcuno — come il sacerdote che parlava prima, dice che accompagna pastoralmente le persone LGBTQ+ come accompagna chiunque altro, io lo capisco benissimo. Perché una persona LGBTQ+ non è solo la sua identità di genere o il suo orientamento: è molto di più, è tante cose insieme.
Nel mio cammino personale, questo l’ho capito anche attraverso delle immagini che mi hanno guidata. Vorrei condividerne tre con voi.
Tre immagini guida
La prima è legata alla mia esperienza di studio. Come vi dicevo, i miei studi teologici sono andati di pari passo con la mia presa di coscienza femminista, alla fine degli anni ’70. È stato un percorso anche doloroso, un travaglio personale, ma fin dall’inizio avevo molto chiaro — anche se non avevo ancora le parole giuste — che la subordinazione delle donne al maschio è la pietra angolare del patriarcato.
Negli anni ’70, questa subordinazione veniva giustificata anche teologicamente. Si negava alle donne la piena immagine di Dio. Questo è stato un nodo enorme.
Poi però, arriva un momento — che per molte teologhe è stato come una conversione — in cui capisci che non è vero che la donna non è immagine di Dio quanto l’uomo. Basta leggere bene due testi fondamentali: Genesi 1,27 e Galati 3,28.
E quando ti rendi conto di questo, cade un tassello, come un domino. E cade anche tutto il resto.
Per me è stato così. La consapevolezza che non esiste alcuna giustificazione per l’esclusione delle donne, ha fatto crollare l’intero sistema. Da lì in poi, ho capito che non c’è giustificazione per nessuna esclusione: né delle donne, né delle persone LGBTQ+, né di nessun essere umano.
E da quel momento, nel mio piccolo, ho cercato di vivere secondo questa convinzione.
Mi emoziona parlarne ancora oggi, ma è importante dirlo: questo domino che cade cambia tutto.
Ho già fatto cenno alla seconda immagine, la spirale che ho preso in prestito dal libro di Mary Daly, teologa femminista cattolica statunitense, Al di là di Dio Padre.
Daly sostiene che la storia delle donne non è lineare, non procede in avanti come una freccia, ma segue un movimento a spirale. Ogni volta si torna sui propri passi, si rileggono i propri inizi, si capiscono cose nuove. Si evolve, ma portandosi dietro tutto.
È così anche per me. A distanza di trent’anni, mi sono trovata poco tempo fa insieme alla mia collega Simona Segaloni.a un intervento sulla teologi delle donne davanti al cardinale di Siena. Ma era un intervento che avrei fatto tranquillamente trent’anni fa. Allora ero giovane, ora ho più esperienza, ma dico le stesse cose. Eppure c’è sempre qualcuno che ascolta e dice: “Non avevo mai sentito niente del genere”.
E capisci che la spirale funziona così. Non tutti e tutte sono nello stesso punto del percorso. Alcuni sono molto avanti, altri stanno iniziando ora, altri ancora devono fare il primo passo.
Quindi è importante ripetere, riprendere, tornare. Perché ogni volta che lo facciamo, tocchiamo un nuovo punto della spirale.
La terza immagine è la fnestra e precisamente la “finestra di Overton” che ho scoperta da poco. E’ un concetto che spiega come avvengono i cambiamenti sociali: un’idea all’inizio può sembrare impensabile, poi a poco a poco diventa accettabile, ragionevole, popolare… fino a diventare una regola condivisa. E allora mi sono chiesta: e se questo schema valesse anche per le Chiese.
Anche la Chiesa cattolica sta cambiando, sia pure lentamente. Allora viene da chiedersi: dov’è, oggi, la nostra “finestra di Overton” nelle Chiese? E come si sposta?
C’è chi dice che questa teoria serva a manipolare le menti. Io non sono d’accordo. Per me è semplicemente un modo per fotografare come cambiano le cose, anche nelle comunità religiose. È come se la finestra si spostasse: può aprirsi su maggiore libertà ma può anche scivolare indietro. Oggi, stanno tornando idee che pensavamo superate. Ad esempio, il disprezzo verso le donne o verso gli immigrati. Idee che credevamo sepolte, improvvisamente tornano ad essere “pensabili”. È un segnale preoccupante. Perché la finestra di Overton non garantisce il progresso. È solo uno strumento per capire dove si sta andando.
Pensiamo, ad esempio, alla benedizione delle coppie dello stesso sesso. Solo dieci anni fa era impensabile. Nessuno avrebbe osato nemmeno proporla. E invece oggi… succede. Conosco casi concreti: io stessa ho partecipato alla benedizione di una coppia, in una Chiesa evangelica. Venti anni fa sarebbe stato impensabile anche per noi. E oggi non solo è accettabile, ma in certi contesti è diventato un segno di inclusione e speranza.
Un’altra teoria che mi ha aiutato a riflettere è quella di Raymond Williams, marxista gallese. Secondo lui, in ogni società ci sono tre componenti: la cultura dominante, il residuo e l’emergente.
Allora chiediamoci: qual è oggi la cultura dominante in Italia? E nelle nostre chiese? Il residuo, secondo me, è quella cultura patriarcale e eteronormativa che ci tira indietro. È forte, ancora presente. Ma sta emergendo anche qualcosa di nuovo. Lo vedo in certe serie TV — ad esempio “Black Doves” su Netflix — dove l’omosessualità di un personaggio non è nemmeno più tema. È semplicemente parte della vita. E questo, per me, è un segnale che in certe culture occidentali l’inclusione è già la norma.
La sfida nelle chiese: conoscersi, pregare, vivere il cuore del Vangelo.
Nelle nostre chiese, tutto comincia dalla conoscenza reciproca. A Grosseto dove ero pastora della chiesa battista abbiamo instaurato un rapporto molto bello con l’Arcigay. Abbiamo fatto cose insieme. Loro sono venuti alle nostre attività, noi alle loro. Conoscersi cambia tutto.
E poi ci sono le veglie di preghiera ecumeniche, nate vent’anni fa. Sono esperienze potentissime. Pregare insieme, da cristiani di confessioni diverse, abbatte muri. E il linguaggio liturgico può diventare uno spazio di incontro profondo.
Dobbiamo creare alleanze: tra generi, tra orientamenti, tra fedi. E anche lo studio biblico deve evolvere. Personalmente, non amo molto la discussione “versetto per versetto” sui testi che parlano di omosessualità. Trovo più utile risalire al cuore del messaggio cristiano che trovo, per esempio, in
Paolo dice: “Siamo giustificati per grazia, mediante la fede”. Non per appartenenze, non per meriti. Questo significa che nessuno è escluso. Nessuno è “più giusto” degli altri. Siamo tutte e tutti nella stessa barca. Ed è da qui che dobbiamo partire, per pensare una chiesa veramente aperta, inclusiva e fedele al Vangelo.
La grazia, non l’identità, ci salva
Il pessimismo antropologico protestante… dura, eh? Ma proviamo a rileggere Romani 3, come ho fatto nel mio libro “Un percorso a spirale”: la giustizia di Dio si è manifestata attraverso la fede in Gesù Cristo. Per tutte e tutti coloro che credono, infatti, non c’è distinzione tra eterosessuali e omosessuali. Tutti hanno peccato, tutti sono privi della gloria di Dio, ma tutti sono giustificati gratuitamente per grazia.
E allora, che ne è del vanto di chi si identifica in una certa sessualità — eterosessuale, per esempio? È escluso. Paolo non stava parlando degli etero o dei maschi, lui parlava degli ebrei, certo. Ma noi possiamo provare a leggerlo così: non si è giustificati per la “legge delle opere”, cioè per il mero fatto di essere etero e non omosessuali. No, si è giustificati per la legge della fede.
Dio è forse Dio solo delle persone eterosessuali? O di un solo popolo, magari quello “arcobaleno”? No. È Dio di tutti i popoli.
Ecco allora un invito che vale anche per oggi: voi che tenete così tanto a etichettare qualcosa di così sfuggente come la sessualità — magari per poter esercitare un certo dominio gli uni sugli altri — piuttosto accoglietevi. Accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti. (Mi pare sia capitolo 15 della Lettera ai Romani… noi siamo al capitolo 3, ma la conclusione è quella).
E questa accoglienza non è quella “generosa” di qualcuno che si sente buono verso qualcun altro. È l’accoglienza reciproca, di tutti verso tutti. Punto.
Inclusione come imperativo evangelico
Per me, da tutto questo si può concludere che la piena inclusione nella vita delle Chiese di tutte le persone — anche di quelle escluse per la loro identità o condizione — non è un’opzione, né un “tema da approfondire”. È una conseguenza diretta del Vangelo annunciato e vissuto da Gesù. Un imperativo. Non qualcosa da rimandare.
*Elizabeth E. Green è pastora emerita dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia. Socia del Coordinamento Teologhe Italiane, è stata Burns Fellow all’Università di Otago (Nuova Zelanda) e visiting professor presso il Seminario battista internazionale di Rüschlikon (Svizzera), la Facoltà valdese di teologia (Roma) e la Pontificia Università Lateranense. Si occupa soprattutto di teologia, femminismo e genere. Tra le altre sue pubblicazioni ricordiamo: Treeology/Theology. In connessione: noi, Dio e l’albero (Gabrielli, 2024), Padre nostro? Dio, genere e genitorialità (Claudiana, 2015), Un percorso a spirale (Claudiana, 2020), Dio, il vuoto e il genere (Claudiana, 2023) e, insieme a Cristina Simonelli, Incontri. Memorie e prospettive della teologia femminista (San Paolo, 2019) e con Selene Zorzi e Simona Segoloni Ruta, Sorelle tutte (La Meridiana, 2021).
> Gli altri interventi tenuti all’incontro “PIETRE D’ANGOLO” (Firenze, 5 aprile 2025)

