Vivere ai margini. Omosessualità: per una antropologia inclusiva
Riflessionidi Christian Albini tratte da Mosaico di pace del maggio 2009
La posizione del magistero cattolico sulle omosessualità deriva da un’antropologia teologica presentata nella Lettera Homosexualitatis problema della Congregazione per la Dottrina della Fede (1 ottobre 1986).
Poiché Dio crea a sua immagine e somiglianza l’uomo, come maschio e femmina, le creature sono chiamate a rispecchiare, nella complementarità dei sessi, l’interiore unità del Creatore.
Lo Spirito plasma la relazione coniugale rendendo possibili il dono dell’io, l’accoglienza del tu e la comunione del noi. L’approccio magisteriale alla teologia biblica della creazione, però, risente di una corrente del pensiero greco basata sulle finalità delle funzioni biologiche che le “fissa” in un sistema socio-culturale e ne ricava una norma comune e perenne. È una sorta di “bioteologia” che investe, direttamente e pesantemente, di significato religioso la realtà biologica del sesso aperto alla procreazione. C’è un ordine universale e immutabile della creazione razionalmente riconoscibile, iscritto da Dio nella natura, il quale determina la concezione della persona umana.
Si tratta di una concezione statica di natura.
Quale accoglienza?
L’orizzonte interpretativo bio-teologico produce un’antropologia esclusiva nei confronti delle omosessualità. Il valore del matrimonio viene affermato creando una sorta di dicotomia eterosessuale / omosessuale riconducibile alle coppie positivo / negativo, bene / male. Non c’è relazione affettivo-sessuale buona, benedetta da Dio, al di fuori della coppia eterosessuale sposata.
Le omosessualità sono perciò patologie, deviazioni, con conseguenze pesanti in termini di svalutazione della persona e di violenza psicologica. La persona omosessuale dovrebbe accettare se stessa solo come mancante di qualcosa.
Si può pensare a un’antropologia cristiana inclusiva che, senza nulla togliere al bene del matrimonio, riconosca un bene anche nelle relazioni omosessuali?
La risposta dipende dal confronto con l’antropologia moderna, basata sulla ricerca e la definizione della propria identità, cioè sul processo soggettivo di riconoscimento e realizzazione di sé. Con il tema dell’identità, due capisaldi del pensiero moderno, la soggettività e la storicità, hanno fatto il loro ingresso nella questione antropologica.
Le omosessualità, così come vengono esperite e pensate oggi, si collocano al cuore di questa svolta in quanto percorsi esistenziali personali di scoperta della propria identità di cui sono parte integrante e imprescindibile. Si può arrivare a un’antropologia inclusiva attraverso un concetto di natura umana meno statico, non riducibile a un’essenza bioteologica, ma di cui faccia parte anche la scoperta della propria identità.Una riflessione del genere può consentire, con le parole di Bonhoeffer nell’Etica, di “recuperare il concetto di naturale alla luce del Vangelo”.
Nel dibattito teologico una revisione del concetto di natura è richiesta da più voci nei termini di una sua mediazione culturale: il modello “naturalistico”, che deduce l’etica da un ordine intrinseco all’organismo umano, è riconosciuto come insufficiente di fronte all’odierna condizione umana.Occorre superare lo schema ingenuo che oppone natura e cultura. La cultura è la via obbligata di accesso alla natura. La ragione da sola non basta a pervenire a un sistema del tutto oggettivo, assoluto, universale e immutabile.
È necessaria una riflessione antropologica che integri la dimensione soggettiva come costitutiva e non come accessoria e per altro verso prenda in giusta considerazione il ruolo dell’esperienza e del tessuto relazionale in cui essa si realizza.
La soggettività è un orizzonte del sapere oltre il quale non si può andare. Non si può dire “che cosa sono” l’uomo e la realtà se non passando attraverso la mediazione originaria della pratica. Solo partendo da un’esplorazione fenomenologica, cioè da una descrizione accurata dei molteplici modi in cui si presentano la vita, le inclinazioni sensibili e il loro rapporto con la volontà, si può porre la questione fondamentale di “ciò che è”, quella che i filosofi chiamano ontologia.
In quest’ottica, Gesù non è colui che ha prescritto un uso del corpo secondo criteri di funzionalismo biologico, ma colui che nel dono dello Spirito vivifica le nostre relazioni innestandole nella comunione trinitaria: l’uomo e la donna conformati a Cristo (nesso tra antropologia e cristologia).
«L’uomo “a immagine” di Dio — scrive Franco Giulio Brambilla — non indica tanto una “natura” creata (anima, spiritualità), o qualche “caratteristica” presente nell’uomo (le facoltà dell’anima), come ha sovente detto la tradizione, ma soprattutto l’identità sintetica dell’uomo in quanto si riceve dentro le relazioni che la costituiscono e si autodetermina attraverso il suo libero agire. L’uomo come libertà creata è relazione, nel duplice senso che egli è costituito nella relazione all’altro e si autodetermina volendo quel senso che gli viene incontro come degno di essere scelto e per cui spendersi».
Lo Spirito abita nel cuore della libertà come relazione perché diventi storia della comunione. Per Brambilla la riflessione teologica sull’identità è parte di una antropologia fondamentale riferita a una fenomenologia dell’esperienza umana, intesa come sapere della coscienza attraverso le forme pratiche dell’agire (nella loro valenza etica e religiosa). La libertà si dà in un dramma, un’azione cioè in cui ne va sempre anche della propria identità.
Questa distensione “drammatica” della libertà appartiene alla sua originaria costituzione, perché essa non può pervenire al proprio compimento che nella distensione del tempo. Brambilla si ricollega alla ricerca di Paul Ricoeur in cui l’identità dell’io è istituita nella circolarità tra l’azione e la coscienza (volente e conoscente) del soggetto. Il nesso tra questi due poli risiede nella nozione di identità narrativa: il racconto costituisce il momento di sintesi delle esperienze vissute e delle attribuzioni di senso con cui le interpretiamo. Scopro la mia identità nel racconto di me stesso e della mia vicenda.
Il punto emergente è mostrare che le omosessualità rientrano in questa storia della libertà abitata dallo Spirito come possibili varianti e non come deviazioni, come modi di esprimere la comunione trinitaria. Si tratta di narrare il vissuto omosessuale non quale uso “de-genere” del corpo, un atto separabile dalla persona come un elemento estraneo e accidentale, ma quale intreccio di corporeità, significati simbolici, dinamismi affettivi e spirituali.
«In ogni riflessione teologica sull’identità umana è necessario tenere insieme biologico, simbolico, sociale come decrittatori dello storicamente collocato. Ma questa prima tesi non può essere disgiunta dalla seconda tesi, inevitabile per una riflessione che si voglia teologica: il rapporto con Dio conferma la nostra identità e viceversa» (Stella Morra).
Le omosessualità possono essere così viste come manifestazioni dell’interiorità autentica che, in un’esperienza cristiana, si dispone a essere abitata dallo Spirito.