Walt Whitman: l’altra Bibbia dell’America
Articoli di Ocean Wong e Roberto Galaverni pubblicati sull’inserto “La lettura” del Corriere della Sera il 17 settembre 2017
«Questi sono i giorni che vi toccheranno». Il verso fu pubblicato per la prima volta a Brooklyn, New York, nel 1855, sei anni prima di quello che sarebbe stato il conflitto più sanguinoso combattuto in terra americana. In seguito Whitman avrebbe dichiarato che la Guerra di secessione e le tensioni politiche e sociali alla radice del conflitto costituivano il perno e il motore di un caposaldo rivoluzionario come Foglie d’erba.
Whitman, tramite l’uso di versi lunghi e iconici e di cataloghi immensi di gente, città, corpi, aggettivi e nomi — tecnica questa mutuata dalla Bibbia di Re Giacomo — auspicava che Foglie d’erba diventasse il Sacro Graal dell’esistenza americana, una raccolta che da ultimo avrebbe unificato un Paese spaccato in due, trovando posto in ogni salotto d’America, fino a sostituire la Bibbia stessa.
Velleità un po’ presuntuose per un poeta sconosciuto. Anche perché i primi lettori avevano difficoltà a stabilire se Foglie d’erba fosse poesia a tutti gli effetti. In un’epoca in cui il verso doveva rispettare un metro e una struttura prestabiliti, l’opera di Whitman rompeva gli schemi già dall’inizio, finendo per fondere i suoi versi in una forma ibrida che agli occhi dei contemporanei, più che letteratura, sembrava la predica di un pastore. Ma sarebbe stato proprio questo afflato predicatorio, biblico, a far presa sull’opinione pubblica e ad acquistare prestigio in virtù dei giudizi favorevoli di Thoreau ed Emerson, idoli di Whitman.
Quei versi nuovi, sciolti da ogni catena, esprimevano in maniera più autentica i contrasti politici del momento. Era letteratura che aveva gettato a terra vestiti e maschere; era discorso puro, senza vincoli. Era qualcosa di elettrico. Tuttavia il libro non raggiunse lo status di sacralità auspicato da Whitman. E non era nemmeno certo quanto (e se) Foglie d’erba, anche dopo la vittoria dell’Unione nel 1865, avesse contribuito alla salvaguardia dell’unità. Agli occhi del lettore dell’epoca le descrizioni disinibite della sessualità contenute nel libro erano troppo esplicite e fuori luogo per i canoni stantii del decoro vittoriano. Oltretutto l’esuberanza liberale di Foglie d’erba, accompagnata da appelli in favore della libertà, dell’unità del Paese e di un orientamento e di una sessualità più aperti, contrastava con le tendenze più conservatrici dell’autore. Se la voce narrante del famigerato Canto di me stesso dà ospitalità a uno schiavo in fuga e a un certo punto s’inginocchia per lavargli i piedi (un gesto che rimanda chiaramente a Cristo), il Whitman preso fuori dalla sua opera e calato dentro al corpo di un americano soggetto ai condizionamenti sociali americani, era un assertore della frenologia, una pseudoscienza che si sforzava di trovare un nesso tra forma e dimensioni del cranio in relazione a razza e sesso, e l’intelligenza e la resistenza al dolore: un esperimento fallito che mirava a giustificare la schiavitù.
Whitman a un certo punto si spinse pure a sostenere l’esilio degli schiavi neri dagli Stati Uniti in Africa, una segregazione su vasta scala che a suo dire sarebbe stata la soluzione migliore al «peccato originale» del Paese. Ma la voce narrante di Foglie d’erba riconosceva e accoglieva questi paradossi come parte essenziale del suo essere uomo: «Mi contraddico?/ Benissimo, e allora mi contraddico,/ (Sono grande e grosso, contengo moltitudini)». E sarebbero state proprio questa grandezza, questo spirito permeato di moltitudini, a valere l’appellativo di «padre della poesia americana» all’uomo che avrebbe influenzato poeti del calibro di William Carlos Williams, Allen Ginsberg, Federico García Lorca e, in Italia, Dino Campana.
Forse, a ben vedere, pur non avendo raggiunto la diffusione da lui sognata, l’eredità di Whitman ha comunque aperto la strada alle sperimentazioni americane prima, e internazionali poi, in campo letterario. «Non chiedo al ferito come si sente, io stesso divento il/ ferito», versi pubblicati 150 anni fa ma che potrebbero essere stati pronunciati tranquillamente oggi.
Lo scorso agosto, in Virginia, a Charlottesville un gruppo di suprematisti bianchi si è dato appuntamento sotto la statua di Robert E. Lee, generale dei Confederati durante la Guerra di secessione, per protestare contro la sua rimozione imminente. D’un tratto la storia non pare più un oggetto lontano e le poesie di Whitman, composte proprio nel caos di quel conflitto, si rivelano oggi preziosissime alla luce delle agitazioni globali, e non solo di quelle negli Stati Uniti. Forse a rendere Foglie d’erba un’opera «senza tempo», come ci piace credere che sia la grande letteratura, non è tanto il fatto che le parole travalichino la loro epoca, quanto che la volontà iniziale di Whitman di designare la poesia come sutura, come balsamo, immaginando un futuro che, almeno in parte, sfuggiva a lui per primo, consiste nell’impeto duraturo, inesausto di un’opera che, nel suo nucleo profondo, altro non è che un grido che chiama l’individuo, d’ogni tempo e d’ogni nazione, a scrivere il suo personale Canto di me stesso.
L’eredità di Whitman, non a dispetto, ma proprio in virtù, delle sue imperfezioni, ci ricorda che ogni volta che una nuova generazione di scrittori e pensatori lancia il suo «barbaro yawp», c’è sempre un arricchimento. Una generazione che guarda alle proprie contraddizioni senza vergogna, riconoscendone con onestà l’umanità necessaria e sofferta, per scrivere un verso nuovo, con musiche nuove, per immaginare un futuro mai visto da alcuno, ma per il quale, con impegno, cura e coraggio, vale la pena vivere.(Ocean Wong, traduzione di Bruno Contini)
Storia e cronistoria di un eterno cantiere di Roberto Galaverni
La storia di Walt Whitman coincide con quella di Foglie d’erba, il suo grande libro di poesia. Dalla prima edizione, stampata a Brooklyn nel 1855, non smise più di ampliarlo, di ripensarne e modificarne la struttura, di rivederne i testi. Alla sesta edizione importante (molte di più sono quelle secondarie), uscita nel 1881-82, il libro sembra aver raggiunto il suo assetto definitivo, ma è vero che ancora dieci anni dopo, con la cosiddetta Deathbed Edition (Filadelfia, 1891-92), cioè l’edizione del letto di morte, Whitman decide d’inserire un’importante prosa finale e di aggiungere, anche se in appendice, due cospicue sequenze di poesie nuove. Dai 12 componimenti iniziali, strada facendo si è giunti adesso al numero di 389. Il poeta muore in quegli stessi giorni, il 26 marzo 1892. Sul New York Times la recensione alle ultime Foglie d’erba esce nello stesso giorno in cui viene pubblicato il necrologio del poeta.
Ed è proprio la Deathbed Edition a costituire il punto di riferimento di una nuova edizione italiana uscita in questi giorni nei Meridiani di Mondadori, la prima che riporti l’opera integralmente, appendici comprese, sia in originale sia in traduzione: Foglie d’erba, a cura di Mario Corona, a cui va attribuita per intero anche la traduzione.
Per dire dei meriti, vorrei partire da quanto ha sostenuto qualche anno fa un lettore d’eccezione, John Maxwell Coetzee, proprio riguardo alle sue tormentate vicende compositive. Malgrado gli «sforzi» enormi per risistemare le sue poesie e per conferire al loro insieme la struttura di una «cattedrale», ha scritto Coetzee, «sembra probabile che, tranne per gli specialisti, Whitman resterà famoso per alcune poesie piuttosto che come l’autore di un solo grande libro, la nuova bibbia poetica dell’America». È un’affermazione che fa pensare, anche perché ha dalla sua ragioni innegabili: la freschezza dirompente e del tutto inattesa della prima edizione, la qualità e il valore non più superato di alcuni tra i componimenti più antichi (tra cui spicca il più importante di tutti, quello che sarà poi intitolato il Canto di me stesso), una regolarizzazione linguistica e formale che non sempre ha giovato, l’inserimento nel tempo di testi più grevi, tante volte ideologici e dimostrativi. Eppure la presente edizione sembra fatta apposta per dimostrare che Whitman non è un poeta da antologia, un autore da poesie scelte. Per chi si limitasse a leggerlo in questo modo, le perdite e le incomprensioni non sarebbero meno rilevanti degli acquisti.
Direi che la forza del lavoro di Corona — introduzione al volume e commento ai testi, anzitutto — sia stata quella di non puntare direttamente a una particolare valutazione critica di Whitman e della sua poesia ma di guardare invece passo dopo passo alla formazione della cattedrale, mettendo in luce, assieme ai punti di forza, i colpi a vuoto, le instabilità, le contraddizioni irrisolte, le pietre fuori posto, e facendo poi uscire valutazioni e giudizi, per così dire, dalle cose stesse, che poi è il compito della buona filologia. L’introduzione si può dunque leggere come un autentico romanzo, che ricostruisce la genealogia e le stratificazioni interne del libro collocandolo nel proprio tempo, tra l’intenzionalità esplicita del poeta e quel residuo di mistero di cui storia e psicologia non possono mai rendere del tutto conto, in quanto riguarda l’insondabilità e persino il capriccio dei procedimenti creativi. Riprendendo un titolo di Saba, questo lavoro si può allora considerare una specie di storia e cronistoria delle Foglie d’erba, vale a dire, proprio come Il canzoniere sabiano, del libro di una vita e — come Whitman auspicava — di una «Personalità» unica, irripetibile, straordinaria perché comune, comune perché straordinaria. L’unione e la tensione tra Io e tutti, tra individualità (e individualismo) e nazione, che apparitene a questo libro come agli stessi Stati Uniti (l’America, per antonomasia), in fondo stanno tutte qui.
Questa edizione consente così di seguire le successive svolte impresse da Whitman alla definizione della propria immagine di uomo e di poeta, a partire dalla prima edizione, che lo scrittore compose, decorò e stampò personalmente, e che uscì praticamente anonima, senza il suo nome nel frontespizio, ma accompagnata dalla sua immagine forse più celebre, che lo immortala in abiti semplici, dimessi, di lavoro. Cesare Pavese a suo tempo lo fece notare: il poeta che ha posto mano alle Foglie d’erba è un uomo giovane, forte, prestante; un uomo attivo, nel fiore degli anni, e non il vecchio patriarca contemplativo dalla lunga barba bianca che le immagini più tarde hanno consacrato (lo stesso potrebbe dirsi di Ungaretti in relazione al Porto sepolto).
Eppure, le poesie di Whitman raccontano anche la storia di quello che diventa via via quel vecchio uomo. Attraverso l’esperienza straziante e umanissima della guerra civile, ad esempio, che gli farà scrivere alcune delle poesie più belle; oppure attraverso la progressiva presa di coscienza che la celebrazione, il canto del corpo e di una sessualità che non conosce barriere di genere, razza, età, costituisce il nucleo più vivo e profondo della sua poesia; o ancora attraverso il tentativo quanto mai arduo di far coincidere questo naturale impulso primario con l’idea stessa di uguaglianza e di democrazia. La poesia di Whitman vive ed è forte delle sue stesse contraddizioni, della sua incerta coscienza politica, perfino dei suoi dislivelli espressivi e stilistici. Il suo «carattere inconfondibilmente americano», che come Corona ricorda gli è stato unanimemente riconosciuto, deriva proprio da qui. «IO CELEBRO me stesso, e canto me stesso,/ E quel che io do per scontato anche voi lo dovete dare per scontato,/ Perché ogni atomo che appartiene a me appartiene tal quale a voi»